mercoledì 28 settembre 2011

Sergio Bonelli

Quello che avevo da dire su Bonelli l'ho scritto su twitter un paio di giorni fa:


Dato che non mi viene in mente nulla di interessante da aggiungere, vi linko qualche post di auotori che ci riescono benissimo.

Alfredo Castelli su le pagine de il Corriere della Sera, qua.

Moreno Burattini sul suo blog.

Giorgio Salati sul suo blog.

E poi due disegni splendidi:

Massimo Carnevale, qua.

Giacomo Bevilacqua, qui.


So it goes.

lunedì 26 settembre 2011

Il diario segreto di Phileas Fogg - Philip Josè Farmer

Phileas Fogg, a quanto dice Verne, assomigliava a un Byron con la barba, ma talmente imperturtbabile da poter vivere mille anni senza invecchiare. Forse questa frase sulla sua possibile longevità è solo una coincidenza, un pensiero fugace, ma, guarda caso, si accorda perfettamente alla realtà.
Infatti, un millennio di vita, tondo tondo, era stato promesso a Fogg. Secondo la descrizione, nel 1872 dimostrava una quarantina d'anni, e questa era appunto la sua età. Ma l'elisir di Eridano non fa sentire il suo effetto finché il corpo non raggiunge i quarant'anni, e poi agisce molto in fretta. Oggi Fogg sembrerebbe invecchiato di un paio d'anni, al massimo, se non è morto in qualche incidente. Ma probabilmente è vivo e vegeto in qualche luogo dell'Inghilterra. Perché, qualcuno sa indicare una tomba con inciso il suo nome, la data di nascita 1832 e poi l'anno di morte? Nessunno, penso.
Il signor Fogg era alto e di eblla presenza, e aveva un volto dai lineamnti regolari, come si ci puà aspettare da un apersona che assomiglia. aburon. Aveva capelli e baffi di colore chiaro, il che deve sinfigicare in vernese - ossia il gergo di Verne - che doveva essere biondo o castano chiaro. Il romanziere francese non cita il colore degli occhi, ma un rapporto di Scotland Yard, tuttora disponibile al ricertatore che abbia la pazienza di adndarselo a cercare, ci finorma che erano grifio scuro. Questo non è una sorpresa, visto che veniva da una famiglia nota per le iridi grigie.
Aveva la faccia pallida, e ciò era la naturale conseguenza del fatto che si esponeva al sole una sola volta al giorno, per il tempo occorrente a fare 1.151 passi. Comunque i denti di Phileas Fogg, diversamente da quelli della stragrande maggioranza degli ingelsi del tempo, erano sani e eprfetti. Non ne aveva mai persi a causa delle malattie comuni tra i popoli d'Albione verso la metà dell'Ottocento. Questo, come gli occhi grigi, era probabilmente una caratteristica ereditaria. D'altra parte, però, visto che fin da bambino gli erano state somministrare varie dosi dell'elisir, la rodbustezza dei suoi denti poteva essere dovuta a medicamenti scoperti vari millenni prima, a molti anni luce di distanza.

Il diario segreto di Phileas Fogg - Philip Josè Farmer



venerdì 23 settembre 2011

Mio nonno al Giro d'Italia. O era Achille Campanile?

A me il ciclismo non piace. Ci vuol tutto che sappia andare in bicicletta, e mi stronco le gambe con lo spinning solo per ordine perentorio del dottore. Quindi ho acquistato Battista al giro d'Italia giusto perché di Achille Campanile. Nessun pentimento dato che come sospettavo mi ha fatto ridere parecchio.

Però leggendolo mi sono ricordato di quando da bambino mi sedevo sulla non gamba di mio nonno e ogni tanto seguivo una tappa del Giro d'Italia con lui. La sua naturale giovialità e l'entusiasmo con cui guardava quello che gli piaceva, si trattasse di ciclismo, calcio o automobilismo, mi rendeva le tappe più sopportabili. Quando c'era un arrivo in volata particolarmente combattuto, potevo addirittura trovarmi a tifare per gente di cui non conoscevo manco il nome.

Ma al di là dell'agone sportivo, ricordo che mio nonno si beava in particolare del contorno. Gli piaceva vedere la folla che si teneva stretta stretta ai lati della strada, chiedendosi da chissà quante ore aspettassero il passaggio dei ciclisti. Gli piaceva vedere strade e piazze imbellettate con ghirlande, gagliardetti, striscioni. Oppure le scritte su cartelli tenuti in mano dai tifosi o scritti col gesso per terra. Soprattutto gli piaceva poter vedere i vari paesi per cui passava il giro, un'occasione, per uno come lui che aveva viaggiato pochissimo per questioni di salute e soldi, di conoscere angoli e scampoli d'Italia. Bene o male ogni volta che parlava di una tappa non si soffermava tanto sulla gara o sui ciclisti, ma sul tal borgo, la certa chiesa inquadrata dal'alto, o le fontane magnifiche di chissà quale città. E finiva sempre sorridendo con <>

Ecco, immaginatevi la mia faccia quando nel libro di Campanile ho letto questo passaggio:

Ore 12,45 -- Battista entusiasta del panorama.
<> dice << è davvero bella.>>
Per ammirare il paesaggio, siede su di un muricciolo.


Ed è solo uno tra i tanti momenti in cui Campanile riesce a rendere l'effetto di vero e proprio viaggio alla scoperta d'Italia che doveva essere il Giro in quegli anni. Siamo nel 1933 e solo radio e giornali davano notizie delle varie tappe, condite con robuste dosi di colore nel descrivere le reazioni degli spettatori e gli scorci incontrati dai corridori. Avveniva a ogni resoconto la creazione di una vera e propria mitologia, con campionissimi inarrestabili, atleti dalle storie a volte umili e a volte tristi, e momenti di erculei gesti.

Campanile sostiene di avervi partecipato come corridore, per distinguersi dai suoi colleghi giornalisti che seguono la gara in macchina. Così son capaci tutti. Lui invece si fa tutte le tappe, accompagnato dal fido maggiordomo Battista, in bici anche lui. E con loro i corridori veri, alcuni dei quali vengono assoldati da Campanile per fondare il gruppo "Sempre in coda!". Tra i baldi giovini ricordiamo il Puma di Cercola, il Leopardo di Barra, l'Armadillo di Brindisi, il Canguro delle Puglie e l'Upupa delle Gallie.

In una credibile fusione di finzione e realtà, vere tappe e atleti storici del Giro vengono frullati assieme a ciclisti dai nomi altisonanti, prestazioni atletiche superomistiche e una serie di gag fulminanti, situazioni paradossali e puntate nel non-sense dall'effetto esilarante.

Finito il romanzo, o intermezzo giornalistico come viene descritto nel sottotitolo, sembra davvero di aver girato in maniera metodica ma allo stesso tempo vorticosa l'Italia. Non dico venga voglia di farsela in bici, non tutti sono coriacei come Campanile e Battista.

Però se lo avessi letto da bambino forse avrei proposto a mio nonno una bella pedalata. Certo, considerando che gli mancava una gamba e l'altra non poteva piegarla perché aveva ginocchio e caviglia bloccate, non sarebbe stato semplice. Ma come gli rispondevo quando me lo faceva notare << Eh, vabbè! Tu ti metti dietro e ti mettiamo un pattino al piede! >>.

Qua trovate l'incipit. Buona lettura.



lunedì 19 settembre 2011

Battista al giro d'Italia - Achille Campanile

Tappa 1

LA CAROVANA SI METTE IN MOVIMENTO

Da Milano a Vicenza, 14 maggio 1932

Ore 6,30 -- Quando il mio vecchio servitore Battista è venuto a picchiare alla porta della mia camera all'albergo di Milano e a dirmi: "Signore, la bicicletta è pronta", sono saltato dal letto. Povero Battista! Raro esempio di fedeltà, ha voluto seguirmi, anche lui in bicicletta, in questo Giro D'Italia. Alla sua età, pena un poco a tenermi dietro, soprattutto a causa dei suoi bianchi favoriti, che fanno resistenza al vento.
Gli altri giornalisti dormono ancora. Vergogna! Essi seguiranno in automobile il Giro. Dovrebbero prendere esempio da me. Invece, voglono viaggiare con tutti i comodi. Ce n'è perfino uno, un francese, che viaggia con un grosso baule. Quando ieri sera l'ho visto, ho pensato, nel primo momento, che ci fosse dentro una donna tagliata a pezzi. Ma poi ho saputo che il collega d'oltre Alpe cambia un vestito ogni cinque o sei ore, dal cappello alle scarpe. Evidentemente, deve aver portato tutto il suo guardaroba. Non mi nascondo che forse è una pazzia, questa che faccio, di seguire in bicicletta il Giro. Tanto più che incontro qualche difficoltà a scrivere pedalando. Ma semel in anno.
Ore 7 -- Battista mi porge le mutandine e le gomme di scorta. Egli è già in tenuta di ciclista. Non son riuscito a convincerlo di adottare le mutandine corte. Dice che lui ha portato sempre le mutande allacciate alla caviglia e che, alla sua età, non se la sente di cambiare abitudini. Tanto più che va soggetto ai reumatistmi.

IL PASTO DELLE BELVE

Ore 7 -- Avevo spesso sentito dire che i campini dello sport, prima di una importante competizione, evitano di empirsi lo stomaco; m'era stato parlato di regime rigoroso, qualcuno aveva accennato alle uova da bere e qualche altro mi aveva sussurrato le parole: brodo in tazza. Talché, su questo argomento, m'ero fatta una idea abbastanza precisa e, ritenendola definitiva, non me ne occupavo più.
Da questo punto di vista vivevo, posso dirlo, tranquillo.
Quand'ecco che oggi la mia opinione riceve un colpo formidabile, dal quale temo che non potrà risollevarsi mai più. Sono di nuovo in alto mare, quanto a cognizioni circa il regime alimentare dei campioni, e le mie idee su questo sargomento si sono terribilmente confuse. Trovo i campioni in un luogo che -- a giudicare dalla scritta sulla entrata -- ritengo essere una trattoria, la quale si vuol raccomandare particolarmente agli amatori delal cucina toscana.
I corridori non si occupano di gomme, né di pedali e nemmeno di sellini; si occupano di frossissime bistecche, di cotolette dalle proporzioni impressioannti, di sfilatini di pane e di cosciotti di capretto arrosto.
Sono le sette del mattino. Milano si sveglia piena di fervore nel pulviscolo d'oro del sole, ma già alla "Fiaschietteria Toscana" di via Vettor Pisani la giornata è piuttosto avanti: giganteschi ossi scarnificati, costole spezzate, femori sanguinolenti e tibie infrante giacciono nei piatti, davanti a vigorosi giovani dalle maglie a vivaci colori delle gambe nude.
Ore 7,30 -- I corridori terminato il pasto, si affidano alle cure d'amici e colleghi. Non si tratta di allenamenti o massaggi, ma semplicemente di panini: i corridori si fanno imbottire le maglie di panini a loro volta imbottiti. Dove è un poco di spazio libero, là viene ficcato un panino, o due, o tre, secondo la disponibilità, davanti e di dietro.
Ore 8 -- Uscendo dalla trattoria i ciclisti paiono forniti di formidabili muscoli e di misteriosi rigonfiamenti in tutte le parti del corpo: poppe quasi da nutrici, anche straordinariamente procaci, quarti posteriori dalle prominenze incredibili.
Battista s'è ficcato nella maglietta un panettone di Milano, e mi segu vero il controllo di partenza, pedalando con l'usata dignità.


Battista al giro d'Italia - Achille Campanile

venerdì 16 settembre 2011

Black Dynamite - 2009

C’è bisogno di più parodie e di meno fakexploitation (si Machete, ce l’ho con te).

Black Dynamite per fortuna fa parte della prima categoria. Prendendo di mira la blacksploitation di Shaft o Sweet Sweet Badaaas o Dolemite, ne prende i cliché e li porta al parossismo creando situazioni ridicole e sbellicanti.

Il protagonista si prende così sul serio da pensare di poter letteralmente scuotere via la droga dal corpo dei piccoli orfanelli. E quando scopre che dietro a un assurdamente complesso piano per sbarazzarsi della comunità nera c’è L’Uomo Bianco per definizione (non ve lo spoilero per non rovinare la gag, ma una volta che lo scopri ha perfettamente senso), decide di affrontarlo da vero uomo: col kung-fu e i nunchaku.

L’approccio degli autori verso la materia di riferimento e lo stile di certe gag mi ha ricordato quello della Pallottola Spuntata della prima ora: l’aderenza a un cliché risaputo fino alla sua conseguenza più estrema per quanto ridicola. Oltre all’inserimento di momenti di no-sense o surrealtà, il tutto con un’accelerazione e progressione in una storia che se parte un po’ in sordina, una volta che ingrana galoppa fino a un finale col botto.

Il protagonista è interpretato da Michael Jay White, pluridecorato artista marziale e action man degli ultimi anni. E’ un particolare non da poco nella riuscita del personaggio (di cui White è anche co-autore): la sua interpretazione super cool e convintissima, unita alle coreografie sgangherate e ai colpi che non vanno a segno, creano uno scollamento che procura umorismo letale.

E’ tutto eccessivo, ridicolo e, in alcuni casi, riproduce gli errori di montaggio o recitazione tipici del materiale d’origine. Ma grazie allo humor e al non prendersi un secondo sul serio, riesce ad essere davvero divertente dove Machete sa solo di finto e fatto col culo.

E’ un peccato che sia stato un flop clamoroso negli USA. Però Adult Swim ne sta producendo una serie animata data in mano agli stessi di Boondocks, di cui potete vedere il pilota qua.

Qua sotto invece il trailer del film

lunedì 12 settembre 2011

Rewrites. A memoir - Neil Simon

In the spring of 1957, I was unhappily in California working on a television special. I was thirty years old and knew that if I didn't start writing that first Broadway play soon, I would inevitably become a permanent part of the topography of the West Coast. The very thought of it jump-started me to my desk.
I sat a the typewriter and typed out "O N E S H O E O F F," all in caps and putting a space after each letter and a double space after each word, trying to picture what it would look like upmon a theater marquee. Four spaces down, in regular type, came "A New Comedy." I sat back and studied it. Not a bad start for a first play. Then I suddenly wondered: when they wrote together, did Geroge S. Kaufman type this out or did Moss Hart? No, it must have been Hart. He was the eager young writer poised behind the trusty old Royal machine while Kaufman, the seasoned old pro, would be lyng across a sofa in his stockinged feet munching on his handmade fudge, bored by such prosaic labors as mannual typing. Kaufman had probably put in enough time punching the keys back in the old days when he was drama critic for The New York Times.
How I envied young Moss Hart being in the same room with the great Kaufman, knowing he would be guided through the pitfalls of playwriting mush as any club reporter would feel the security of marching behind Henry M. Stanley as he guided his pack-bearers across the African plain in search of the great missionary, and then, upon finding him, having the coolness and gift of a great journalist to put quite simply and memorably, "DR. Livingstone, I presume?"…
But, I had no Henry M. Stanley to teach me the impact of brevity in great moments. As a matter of fact, I had no George S. Kaufman, no fudge, no nobody. I had me. Not only had I not written a play before, I had never written anything longer than twelve pages, which was all that was rewuired for a TV variety sketch back in the mid-1950s. Even that was a major step up from the one-liners I used to write with my brother, Danny, when we were earning our daily bagels working for stand-up comics and sit-dow columnists.
Now I was faced with 120 pages to feed, complete with characters, plots, subplots, unexpected twists and turns, boffo first-act curtaind lines, rip-roaring second-act curtain lines, and a third act that brought it all to a satisfyng, hilarious, and totally unexpected finish, sending audiences to their feet and critics to their waiting cabs, scribbling on their notepads in the darkness "A Comic Genius Hit New York Last Night".
…At least Lindbergh had the stars to guide him. I didn't even know how to change the typewriter ribbon. Nevertheless, I pushed on.


Rewrites. A memoir - Neil Simon.



mercoledì 7 settembre 2011

Mary & Max - Adam Elliot 2009

Mary & Max

C'è una bambina australiana bruttina e senza amici che un giorno decide di farsi un amico di penna. Apre a caso l'elenco del telefono di New York e scrive a un uomo di oltre 40 anni, obeso, senza amici e con la sindrome di Asperger.

Come premessa per un film d'animazione in plastilina non è affatto banale, ma non lo sarebbe nemmeno per un live action. Nonostante faccia ridere in più di un momento, Mary & Max è una commedia molto molto nera. Tratta di malattia, problemi psicologici, alcolismo, handicap fisici e un generale senso di non appartenenza. Perché è la solitudine che permea ogni personaggio di questa storia, e la ricerca estenuante di qualcuno con cui mettersi in connessione, per sfogarsi, per trovarsi e per sentirsi meno soli e almeno un pochino normali.

Date queste premesse il rischio di sfociare in dramma soporifero o in buonismo dolciastro è alto ma per fortuna il regista e sceneggiatore riesce sempre a tenersi un passetto indietro. Perché al di là della rappresentazione a volte buffa del dolore o assurda della morte, i personaggi mostrano di essere sfaccettati e non semplici figurine di gag estemporanee. Gli incidenti mutilano sul serio e quando si muore non si torna indietro.

Il rapporto tra Mary & Max non è quello da "e vissero felici e contenti" e non si ha mai l'impressione che le cose siano facili una volta che si è trovato un amico con una passione comune. Anzi, tutto potrebbe finire da un momento all'altro lasciando una situazione peggiore di quella iniziale. Basta un incomprensione. L’incertezza e l’insicurezza regnano sovrane e la vita è sempre pronta ad annichilirti.

Il finale, a seconda di come lo si voglia vedere e interpretare, potrebbe lasciarvi un sorriso un po' amaro in faccia o un groppo in gola. O tutti e due. Qua sotto il trailer.




lunedì 5 settembre 2011

A confederacy of dunces - John Kennedy Toole

A green hunting cap squeezed the top of the fleshy balloon of a head. The green earflaps, full of large ears and uncut hair and the fine bristles that grew in the ears themselves, stuck out on either side like turn signals indicating two directions at once. Full, pursed lips protruded beneath the bushy black moustache and, at theri corners, sank into little folds filled with disapproval and potato chip crumbs. In the shadow under the clock at the D. H. Holmes department store, studying the crowd of people for sings of bad taste in dress. Several of the outfits, Ignatius noticed, were new enough and expensive enough to be properly considered offenses against taste and decency. Possession of anything new or expensive only reflected a person's lack of theology and geometry; it could even cast doubts upon one's soul.
Ignaitus himself was dressed comfortably and sensibly. The hunting cap prevented head colds. The volumminous tweed trousers were durable and permitted unusually free locomotion. Their pleats and nooks contained pockets of warm, stale air that soote Ignatius. The plaid flannel shirt made a jacket unnecessary while the muffler guarded exposed Reilly skin between earflap and collar. The outfit was acceptable by any theological and geometrical standards, however abstruse, and suggested a rich inner life.
Shifting from one hip to the other in his lumbering, elephantine fashion, Ignatius sent waves of flesh rippling beneath the tweed and flannel, waves, that broke upon buttons and seams. Thus rearranged, he contemplated the long while that he had been wiating for his mother. Principally he sonsidered the discomfort he was beginning to feel. It seemed as if his whole being was ready to burst from his swollen suede desert boots, and, as if to verify this, Ignatius turned his singular eyes toward his feet. The feet did indeed look swollen. He was prepared to offer the sight of those bulging boots to his mother as evidence of her throughtlessness. Looking up, he saw the sun beginning to descend over the Mississippi at the foot of Canal Street. The Holmes clock said almost five. Already he was polishing a few carefully worded accusations designed to reduce his mother to repentance or, at least, confusion. He often had to keep her in her place.

S confederacy of dunces - John Kennedy Toole