lunedì 31 dicembre 2012

Lo scaffale dei ricordi futuri - O del perché nel 2013 non comprerò libri


Fin da ragazzino ho sempre comprato libri usati. Costano (quasi) sempre poco e scopri spesso chicche inaspettate. Ne parlai qua tempo addietro.

Oltre all'usato, sfrutto spesso le offerte spinte ciclicamente dalle librerie, che si tratti di compri tre paghi due o percentuali di sconto da far venire l'acquilina in bocca. E poi ci sono le librerie remainders piene di piccole gemme. Per non parlare della cuccagna infinita che mi si è aperta davanti da quando ho imparato l'inglese, ho una connessione a internet e una carta di credito. 

Questo per dire che leggere molto spendendo poco è molto facile, se hai voglia di sbatterti un minimo.

Vi è solo un problema: per non farmi scappare occasioni, tendo a comprare ben prima di aver terminato quello che sto leggendo. Se avete mai cercato un libro usato sapete benissimo cosa significhi non comprarlo appena lo trovate su un banchetto. Vi dite "Ah, torno dopo pranzo che ora non ci ho i soldini!" ma in cuor vostro sapete che quelle pagine staranno già filtrando nei pensieri di qualcun'altro mentre voi azzannate un panino che sa di cartone. Ergo compro appena trovo.

Per una serie di motivi intraprendenti, lo scaffale dei ricordi futuri quest'anno è arrivato a un peso imbarcante. Sfruttando un recente cambio di librerie li ho messi in ordine. Il caso ha voluto che i libri da leggere siano 52. Ci ho pure fatto una foto.

Anni di Tetris danno i loro frutti.
Significa che posso godermi il lusso di leggere un libro diverso alla settimana e arrivare alla fine del 2013 senza sborsare un euro. Che in tempo di crisi può non essere un brutta cosa. 

mercoledì 7 novembre 2012

Movember - Cresciti il baffo e parla di cancro

C'è un'organizzazione no-profit che va per il nome Movember. Il nome è la crasi tra November e Moustache (baffo). I partecipanti smettono di radersi il primo novembre per farsi crescere i baffi per il resto del mese. L'idea è di informare e raccogliere fondi per la ricerca sul cancro alla prostata e ai testicoli.

Ora, all'italiano medio non piace uscire i soldi. Mai. Per cui se non avete voglia di fare una donazione, per lo meno potete informarvi un po' sulla prevenzione del cancro alla prostata e ai testicoli.

Per quanto riguarda quello ai testicoli vi rimando al post dell'anno scorso, ci trovate due video che trovo interessanti, informativi e chiari sull'autopalpazione. Ingoiate eventuali paure e buttateci un occhio. La prevenzione aiuta e in molti casi salva. Il post coi video è qua. Le mani ce le avete e ora sapete come usarle non solo per grattarvi e farvi i rasponi.

Controllare la prostata da soli è invece difficile se non impossibile, data la sua sede. Non sai dove si trova? C'abbiamo le immagini, direttamente da Wikipedia:

Sulle note di---> The time has come to Push the button

Mi pare chiara e facile da capire. La dove l'indice pigia con delicata sicurezza, la prostata giace paciosa e pronta a produrre liquido seminale. Ho scelto quella con tanto di mano guantata perché so benissimo che l'idea di farsi infilare un dito in culo, a meno che non si tratti di camera da letto, non piace a nessuno. Già andare dal dottore mette tutti in agitazione, sapere che poi ci dovrà massaggiare la prostata per saggiarne la consistenza può essere, per alcuni, troppo da ingoiare.

Però, siamo adulti, comportiamoci come tali. E poi, magari siete dotati di grande mobilità articolare e riuscite a farcela da soli senza slogarvi una spalla o il polso. Ma anche riuscendoci, non so quanto sareste in grado di capire al tatto se la vostra prostata è sana o meno. Per cui, fidatevi del vostro dottore e apritevi a lui.

Il cancro alla prostata tendenzialmente viene agli uomini over-50. Se siete giovani, invece di bullarvi, pensate ai vostri padri. Si, ci si imbarazza bla bla bla. Lo ripeto, o vi comportate da adulti, o non rompete i coglioni. Comprendo la paura, ma non giustifico l'infilare la testa sotto la sabbia. Parlatene e ditegli di parlarne col dottore di casa.

Ma tornando a Movember. Dato che la mia barba cresce con la rapidità delle file d'attesa alle poste, temo che a fine novembre più che un baffo avrò un terzo sopracciglio tra naso e bocca. Per cui mi sono premunito di aiuto posticcio da usare alla bisogna. Francamente, sto da dio:




Vedremo il primo dicembre che vergogna tricotica mi sarà spuntata. Nel frattempo, cercate info il più possibile corrette e fatele girare. E' utile e non costa nulla.

lunedì 27 agosto 2012

[NSFW] Interessante come guardare il fango che s'asciuga.

"It's like watching paint* dry" dicono gli americani per indicare un evento estremamente noioso. Non so se ci sia un corrospettivo preciso in italiano. Però, come sempre, l'interesse sta negli occhi di chi guarda. O nella superficie che si asciuga. Giudicate voi.



La modella si chiama Yara, nel remoto caso vogliate approfondire la conoscenza.

Remoto. Heh.

*Si lo so, paint non significa fango. E voi vi fissate su particolari insignificanti come il vostro pene.

domenica 26 agosto 2012

Good luck, Mr. Gorsky - RIP, Mr. Armstrong

La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo della morte di Neil Armstrong: un corto animato che vidi anni fa in televisione.

Leggenda* vuole che Armstrong disse la frase "Good Luck, Mr. Grosky!" quando si trovava dal lato non pinkfloydiano della luna. Un corto animato illustra quello che pare sia stato l'arcano dietro alla frase di Neil.

Purtroppo non lo trovo su Youtube, per cui vi tocca andare a questo link e guardarvelo con uno streaming un po' scricchiolante. Si vede poco ma c'è l'opzione a tutto schermo, in alto a destra dello streaming.

*Ma a questo punto preferite credere alla leggenda divertente, o scoprire la banale verità?.

lunedì 16 luglio 2012

Prove tecniche di piegamenti sulla verticale - Handstand, ci sto arrivando.

Tra le cose che voglio imparare a fare quest'anno, ci sono i piegamenti fatti sulla verticale. Da qualche tempo sto lavorando alla forza necessaria per riuscirci, con un esercizio che gli ammerigani chiamano pike-push up. Lo vedete nell'immagine qua sotto:

Maglia della salute. A righe orizzontali. Chissà il pigiama con la patella sul culo.
Ma la forza è solo uno dei fattori da tenere sotto controllo. L'altro enorme ostacolo è l'equilibrio necessario a rimanere in posizione a testa in giù in maniera stabile. E questo lo si può imparare solo mettendosi sulle mani e provando l'handstand, cioè la verticale.

Ingoiando la paura di spaccarmi le spalle o rompermi il muso scivolando, un paio di giorni fa ho provato a fare la verticale e questo è il risultato:

Ficcherò gli alluci nei faretti, me lo sento.

Si, nella foto sono io. Ora, chiamarla verticale è un'insulto a qualsiasi ginnasta, acrobata o anche bimba di 10 anni che si diverte a farla deridendomi con giustezza. Primo perché per arrivare alla posizione che vedete in foto mi sono aiutato "camminando" sull'armadio che si trova in faccia a me. Secondo perché alla fine della risalita sono rimasto poggiato per qualche secondo con culo e gambe contro la parete alle mie spalle. Terzo perché ora come ora riesco a staccare dal muro solo gambe e culo, mentre le spalle rimangono ancora adese alla parete. E a occhio direi che le braccia sono fuori asse dalle spalle e dal resto del corpo, il che oltre a essere sbagliato immagino non faccia nemmeno benissimo all'articolazioni.

Però da qualche parte bisogna pur cominciare. Poi si tratta solo di fare un passo alla volta. Sulle mani. Per ora riesco a mantere quest'obbrobbrio di posizione per circa 5-6 secondi. Vediamo come andrà nelle prossime settimane. Tanto finché non riesco ad arrivare a una verticale davvero verticale e a tenerla per una 30ina di secondi, credo non tenterò mai di fare un push-up.

Se non mi slogo tutto vi tengo aggiornati.

lunedì 11 giugno 2012

Trazioni alla sbarra - si procede 1 kg alla volta ma si procede

Ho concluso l'allenamento per le trazioni alla sbarra di cui parlavo qua lo scorso mese.

La faccio breve: sono passato da 6 trazioni consecutive a vuoto a 10 ben fatte. Il massimale con zavorra è passato da 20kg a 22kg.

Sono contento per le trazioni a vuoto perché 10 ben fatte era il numero a chi miravo. 
Sono un po' combattutto sul risultato zavorrato. Ammetto che miravo ai 25kg. Non ho ancora abbastanza esperienza nell'allenamento per capire se le mie aspettative erano fattibili o meno. Forse un aumento di zavorra del 25% in quattro settimane era impensabile.

Però sono comunque progredito in avanti, il che è sempre una piccola conquista e pone l'obiettivo finale un passo più vicino.

Inoltre se penso che più o meno un anno fa non riuscivo a fare nemmeno una trazione a vuoto, tutto assume un'altra prospettiva.

Ora devo decidere se ripetere un ciclo dello stesso allenamento alla luce dei nuovi massimali, o provarne un altro. Qualsiasi cosa decida, vi farò sapere come procede.

Nel frattempo: breve gallery di belle ragazze più in forma di me!







mercoledì 6 giugno 2012

Questo picnic non mi è nuovo - Cosa VS Come

Un amico mi ha linkato un breve cortometraggio che vi linko qua sotto. Lo trovo discretamente inquietante. E' del 2008, di Irena Gatej.



E' probabile che molti pensino subito a Matrix o a Il tredicesimo piano* o Dark City.

A me invece è venuto subito in mente un episodio di Ai confini della realtà che vidi da ragazzino. Si tratta del periodo a colori degli anni '80. Culo vuole che sia su youtube, dura poco meno di 10 minuti e ve lo linko qua sotto.



Si intitola Dreams for Sale, è del 1985. Decisamente simili, per essere buoni.

Però a me piace di più quello di Irena. Forse perché è più breve. O perché da molte meno spiegazioni di quello di Ai Confini della realtà. Chi è sta donna che sogna la propria famiglia? Ma poi sarà la sua o è un innesto di memoria ex novo? E le vecchie? Infermiere? Tecniche di laboratorio? Guardie carcerarie? Bò!

Anche la presenza delle gemelline un po' kubrikiane aiuta, come il "Mommy, mommy, mommy!" ripetuto in maniera ossessiva. Fatto sta che lo trovo più efficace e disturbante.

O magari è colpa del tono di Dreams for Sale che mi sembra un po' patetico.

Come ho letto non ricordo dove "Avere l'idea per primi non significa essere i più bravi a svilupparla" o qualcosa di simile.

*Il tredicesimo piano è basato su un romanzo del 1964 Simulacron-3 di Daniel Galouye

giovedì 31 maggio 2012

Paperi Volanti ovvero sono su Topolino

Su Topolino 2949 che trovate in edicola in questi giorni c'è una mia autoconclusiva di cui vi agevolo la prima vignetta qua sotto, con tanto di naso e mezzo sguardo del sottoscritto. Oh, ognuno propone i contenuti speciali che si può permettere.
Eccomi in un disastroso tentativo di imitare l'espressione di Paperino.  


Per chi se lo chiede, le autoconclusive sono le storie da una pagina sola. Funzionano come le strip, solo che si sviluppano nelle sei vignette tipiche del formato Disney.

A me scrivere autoconclusive piace. Non ho ancora abbastanza esperienza sul campo per rendermi conto fino in fondo se mi sono più congeniali rispetto ad altre metrature. Che non significa più o meno semplici nella realizzazione. Credo che ciascuna lunghezza abbia i suoi pro e contro. Di sicuro so che da lettore ho una discreta predilezione per le storie corte, brevi o brevissime. In generale, non parlo solo di fumetto Disney. Anzi, non parlo solo di fumetto.

Ad esempio amo molto i cortometraggi e i racconti brevi. E spesso mi delizio nel guardare sketch comici di autori con le palle che durano pochissimi minuti.

Per cui trovarmi a scrivere storie brevi o autoconclusive mi lascia un certo senso di "Finalmente posso provarci pure io!". Se poi funzionano o meno e se fanno ridere, lo decide solo il lettore.

lunedì 21 maggio 2012

Baciami come Gene Wilder

Frankenstein Jr. è il frutto della collaborazione tra Mel Brooks e Gene Wilder. Anzi, Gene Wilder ne è stato il promulgatore, trattandosi di una sua idea a cui ha lavorato per diverso tempo prima di proporla a Brooks.

Frankenstein Jr. è tra i pochi film che io guardo almeno una volta all’anno da che ho memoria. Ogni volta rido, o perché anticipo le battute che ormai so a memoria, o perché riesce ancora a stupirmi. Credo sia una delle storie che più mi abbiano influenzato a livello di umorismo. Influenza non cercata ne studiata, ma semplicemente assimilata.

Quindi se a me piace un certo tipo di umorismo, sia che si tratti di assumerlo o proporlo, buona parte della colpa è di Gene Wilder. Normale che mi sia letto la sua autobiografia. Normale che l’abbia trovata molto divertente e interessante. Curioso che vi abbia trovato descritto dentro un uomo pieno di paure, che ha passato diverse crisi esistenziali e che ha avuto un rapporto difficile con gli altri, in particolare con le donne. Rassicurante che Wilder riesca a parlare delle proprie sfighe personali con una leggerezza e ironia che secondo me riesce allo stesso tempo a stemperarle e a dar loro un peso maggiore sul suo percorso di crescita.

Gilda, Sparkle, Gene.
Voglio partire dal fondo. Wilder si è spostato negli anni ‘80 con Gilda Radner, comica strepitosa del SNL. Gilda si è ammalata di cancro e ha dovuto subire un intervento. I due aspettano che i dottori diano il via libera al ritorno a casa.  E il segnale di via libera ve lo lascio descrivere da Wilder:

“Trascorse quasi due settimane intere al Mount Sinai Hospital con un sondino nasogastrico nel naso. Lo odiava, come tutti, ma non potevano rimuoverlo finché non ci fossero stati segni di ripresa della funzionalità intestinale. E il segno tangibile che i medici stavano aspettando era un’incontrovertibile scorreggia. Dopo dieci giorni lei produsse una piccolissima, graziosa scorreggia.”

Credo che in questo passaggio ci sia racchiusa buona parte della visione del mondo di Wilder. La capacità di cogliere aspetti ridicoli, dissonanti e grevi della vita, e di raccontarli con leggerezza e sincerità. Inoltre penso ne esca anche l’amore di Wilder per la moglie che, da li a poco, morirà.

Raccontare in questo modo così efficace la gretta realtà della vita non so se sia un dono di natura, di sicuro però è una capacità che viene affinata nel tempo lavorando molto. Wilder dice di aver imparato osservando come hanno fatto quelli prima di lui. Mi verrebbe da fare un distinguo tra recitare e scrivere, ma sostanzialmente si tratta in entrambi casi di raccontare qualcosa. Per cui che un grande attore sappia anche raccontare, per quanto magari non sia la norma, non è del tutto eccezionale.

Wilder cita tra le sue influenze Chaplin. Mi pare giusto, si deve guardare ai più grandi se si vuole anche solo sperare di essere poco più che mediocri nel proprio mestiere. L’insegnamento che desume da Chaplin è quello di non esagerare, non forzare, non strafare. Come dice Gene:

“Se l’azione o il gesto fisico che stai compiendo è divertente di per sé, non devi calcare la mano recitando in maniera buffa… Sii naturale e il divertimento aumenterà.”

Sono convinto ci sia del buono anche per chi scrive in questa frase.
 
Non so se Wilder abbia tenuto fede a questo approccio 24/7 per tutta la sua carriera, ma di certo è che alcuni suoi ruoli strepitosi sembrano seguire il consiglio fino in fondo. 


Mi viene in mente soprattutto la sequenza tratta da Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, di Woody Allen, in cui Gene interpreta un dottore che si innamora di una pecora. Un’idea che poteva essere rovinata se resa in maniera volgare o strombazzata, risulta per me fenomenale grazie alla recitazione piana e discreta di Wilder. Lo stesso Allen dice che ha scelto Gene perché gli serviva un attore che sapesse rendere credibile l’innamoramento di un uomo per un animale. Il risultato mi sembra dargli ragione.

Come dicevo, recitazione o scrittura cambia poco quando si parla di attitudine al racconto. Prendete il passaggio in cui Wilder racconta la sua esperienza con i preservativi. Accadde circa un mese dopo la morte della madre:

“Poi capitò una cosa strana: circa un mese dopo comprai per la prima volta un preservativo. Non sapevo esattamente come usarlo; mi sembrava complicato. Mi chiedevo quando indossarlo di preciso, se occorresse chiedere l’aiuto della donna, quando toglierlo… Naturalmente, la domanda più calzante sarebbe dovuta essere: “Qual è la donna a cui chiedi, nel bel mezzo di una chiacchierata, di aiutarti a infilare un pezzo di gomma sul pene?”
A proposito, già all’epoca non pregavo più così tanto.”


Il suo rapporto col sesso e con l’altro sesso viene affrontato in maniera molto franca nell’autobiografia, raccontando dei matrimoni falliti e del rapporto difficile e sofferto con la figlia adottiva. Tutto quanto raccontato però senza patetismi e, per quel che si può capire sentendo una sola campana, in maniera molto sincera.

Quindi che abbia scritto Il più grande amatore del mondo, di cui è anche protagonista, sembra quasi un modo per raccontare e forse esorcizzare i suoi trascorsi di amante. Ad esempio racconta così un suo incontro da una botta e via con una certa Karla, in un periodo nerissimo del suo primo matrimonio.

“Ero sul punto di bussare alla porta di Karla, quando sentii la voce di un uomo  provenire dall’appartamento, e poi anche quella di Karla. Pensai: Sarà un vicino, un parente, chissà? Bussai.
Venne ad aprirmi Karla. Scorsi quello che mi parve un uomo d’affari ben vestito che infilava la camicia nei pantaloni. Allungò una mano per prendere la sua giacca e Karla ci presentò. Non ricordo come si chiamasse, di lui ricordo soltanto il particolare della camicia.
L’uomo si congedò con molta educazione e Karla mi invitò a entrare e a mettermi a mio agio. (Avevo capito bene? Si supponeva che io dovessi pagarla?).
Mi offrì del caffé e poi mi invitò nella sua camera da letto, come se ci fossimo già messi d’accordo prima. Karla incominciò a spogliarsi. Dopo qualche goffo momento di titubanza, mi spogliai anch’io.
“Sai che c’è” mi fece “ultimamente sono diventata ninfomane.” Alla frase seguì una risatina.
“A questo punto della mia vita mi sento un po’ sola. Questo è quanto. Spero che non ti dispiaccia”.
“A me? No, certo che no” (Mio Dio che sto dicendo? Mi sembra di essere Woody Allen)
M’infilai nel letto insieme a lei, ci scambiammo qualche bacio e subito dopo lei se “lo” infilò dentro. Penso che a voler contare si sarebbe arrivati a sette-otto e poi boom!
Cercai di essere il più gentile possibile, compatibilmente con l’assurdità della situazione. E in effetti anche lei si sforzò di fare altrettanto. Volevo soltanto uscirmene. Dopo una serie di educati ringraziamenti, pronunciai un educato “Buonanotte, Karla” e me ne andai.”


Tutto un altro universo rispetto al rapporto con Gilda, che suggerì a Gene un titolo da usare prima o poi, Baciami come uno sconosciuto, poche settimane prima di morire. Wilder racconta di aver visitato spesso la tomba di Gilda, in compagnia del cagnolino Sparkle:

“Mi recavo al cimitero più volte a settimana solo per dire qualche parola a Gilda e per permettere a Sparkle di fare pipì sulla sua tomba. Sapevo che Gilda ne sarebbe stata felice.”

Scene così le crea solo la vita e l'autobiografia ne è zeppa.



lunedì 14 maggio 2012

Trazioni alla sbarra - più zavorra per la vittoria!

Appendersi a una sbarra e tirarsi su con un braccio solo è una delle cose che mi sono ripromesso di riuscire a fare quest’anno. Come tutto, si tratta di una capacità a cui si arriva un passo alla volta. Uno dei metodi consigliati per riuscirci è quello di allenarsi a fare le trazioni alla sbarra con due braccia legandosi una zavorra alla vita, arrivando ad aggiungere metà del proprio peso in zavorra.




Ora come ora riesco a fare una trazione completa aggiungendo 20kg. Dato che il mio peso corporeo oscilla stabilmente da qualche mese tra i 78 e gli 80 kg, devo arrivare a fare una trazione con 40kg di zavorra.


 
 
Ergo da oggi inizio un allenamento mirato ad aumentare il sovraccarico e che, allo stesso tempo, dovrebbe allenare anche il numero di ripetizioni totali nelle trazioni a vuoto. Tirando solo su me stesso, riesco a completarne 6 ben fatte, 10 spingendomi col bacino. Ma facciamo gli onesti e diciamo che ora come ora ne so fare 6 prima che mi si stacchino le braccia.
 
 


Il programma, che ho preso dal sito di Iron Paolo (che per quanto prolisso è molto interessante se vi interessate di allenamento legato alla forza e nello specifico al powerlifting), dura 4 settimane. Non so bene che margine di miglioramento aspettarmi. L’importante è che il miglioramento ci sia, tanto non c’è fretta. Fra quattro settimane vi racconto come va a finire.

P.S. Io le trazioni le faccio con la presa supina, quelle che gli americani chiamano chin-up. Per capirci, afferro la barra come le ragazze nelle foto che vedete in questo post.





giovedì 3 maggio 2012

Cancro e trapianto non mi rendono coraggioso.


Temo che questo post sarà un po’ confuso, ma mi gira in testa da tempo e spero che scriverlo mi chiarisca le idee ed mi aiuti a spiegarmi con gli altri.

Qualche tempo fa ho linkato nei vari social network la seguente citazione:

"I have had cancer, and had all too many hours, days and weeks of hospital routine robbing me of my dignity. Although people in my situation are always praised for their courage, actually courage has nothing to do with it. There is no choice." (RogerEbert)

che in italiano suona più o meno:

“Ho avuto il cancro, e ho avuto troppe ore, giorni e settimane di routine ospedaliera a rubarmi la dignità. Anche se le persone nella mia situazione sono sempre lodate per il loro coraggio, in realtà il coraggio non ha nulla a che vedere con questo. Non c’è scelta.”

Più di un amico e amica mi ha detto di non essere d’accordo con questa frase, e di non capire perché invece io, che il cancro l’ho avuto, la sottoscriva parola per parola. Trattandosi di una situazione estrema, mi rendo conto che la reazione di ciascuno è diversa, sia sul momento, che sul lungo termine. Quindi sia chiaro che quando penso che il coraggio non c’entri nulla con l’affrontare il cancro, parlo del mio cancro, della mia persona e della mia esperienza personale. Altre persone la vivono in maniera diversa.

Credo che il succo sia racchiuso nelle ultime quattro parole : “There is no choice/Non c’è scelta.”

Quando mi hanno diagnosticato il cancro la prima volta, mi hanno spiegato per filo e per segno cosa avrei dovuto fare: operazione per asportare circa l’80% del fegato, che era ripieno di cancro, e passare i 12 mesi successivi assumendo farmaci giornalmente. A quel punto mi chiesero se avevo intenzione di procedere.

“E se non lo faccio?”

“Muori.”

Ora, non so voi, ma se da una parte c’è un’offerta per una probabile guarigione, e dall’altra la discreta certezza di morire mangiato vivo da un tumore, scegliere la probabile guarigione non mi pare una scelta coraggiosa, quanto una semplice necessità.

Oltretutto, per quanto tenda a vedere il ridicolo e l’assurdo in ogni situazione, come quando mi dissero

“Lei ha un tumore maligno di 1,5kg che ha invaso l’80% del suo fegato, ma per il resto il fegato è del tutto funzionante e sano!”

non significa che non abbia avuto o abbia ancora paura. Perché per quanto si stringano i denti, si ponderi la situazione in maniera il più possibile distaccata e ci si dica che andrà tutto bene, la frase “Lei ha un tumore” alza il volume della paura sulla tacca dell’11.

Quando questa viene seguita da frasi come “E’ operabile” “Ci possiamo lavorare” “Ci sono farmaci che danno buone probabilità” la paura s’abbassa un po’ ma rimane li come una nebbia di piombo che ti attraversa i polmoni. Nel mio caso poi i polmoni non si potevano espandere del tutto perché il fegato era così ingrossato da spingere sul diaframma lasciandomi sempre col fiato corto.

Occluso da questo senso di oppressione, la sensazione di coraggio penso non mi abbia mai nemmeno sfiorato di striscio. Forse quello che ho provato e che chi mi è stato intorno ha preso per coraggio è stata solo lucidità e assenza di tentennamento.

Sapere con precisione cosa mi avrebbero fatto i dottori e i chirurghi mi ha dato una certa illusione di avere la situazione sotto controllo. Credo sia questa ricerca di risposte che tolgono i dubbi ad avermi portato negli ultimi anni a cercare informazioni su cancro, trapianto e strategie di cura ad essi correlate in maniera che mi rendo conto essere un filo ossessiva. Ma ho scoperto che avere una risposta ai dubbi di chi mi sta accanto, dubbi che a volte non vengono in mente nemmeno a me, mi è di aiuto a credere che ci sia una via all’accettazione di quanto mi è successo e a una convivenza con lo stato di non essere del tutto sano.

Questa serie di pensieri e reazioni si è ripresentata con la recidiva di tumore e la necessità di sottopormi al trapianto. E sottolineo nuovamente: necessità.

La seconda diagnosi, la recidiva, il ritorno del cancro oscuro, è stata una botta ben peggiore della prima. Sia perché è stata del tutto asintomatica, sia perché dopo un paio d’anni dalla prima operazione cominciavo a sentirmi bene e a pensare che tutto sommato fosse finita.

Di nuovo, quando mi dissero che l’opzione era il trapianto, non mi sentii per nulla coraggioso ad accettare. Di nuovo, la lucidità e la caduta di quasi ogni tentennamento mi si sono infilati dentro insieme all’oppressione. E come la prima volta, ho cominciato a ricercare in rete tutto quanto potevo sapere su trapianto, statistiche di riuscita dell’operazione, percentuali di sopravvivenza a breve e lungo termine e il racconto di esperienze dirette di chi ci è passato.

Anche nel periodo pre e post trapianto mi sono sentito dare del coraggioso e di nuovo ho vissuto questi commenti in maniera combattuta. Da una parte comprendo il desiderio di chi ci è vicino di dare in qualche modo il proprio supporto, ma dall’altra sentivo come questo termine fosse fuorviante.

Forse è perché ho problemi con il termine coraggio e la sua aura di romantico ardimento, considerando invece gli atti cosiddetti coraggiosi semplicemente azioni necessarie che per fortuna qualcuno si prende la briga di compiere.

Ad aver dimostrato davvero coraggio sono semmai le tre persone che mi hanno detto chiaro e tondo che in caso di necessità si sarebbero offerte di tentare la strada del trapianto da vivente. Questo significa assumersi un rischio alto sia nel momento dell’operazione, sia dover affrontare il dubbio di un qualsiasi tipo di complicanza sul medio e lungo termine. Rischi decisi per salvare un’altra persona e non se stessi. Eventi necessari ed estremi che portano fuori l’intimità di una persona e forse la sua visione di cosa sia giusto e sbagliato fare.

Io invece ho solo deciso di salvare me stesso in entrambe le occasioni, afferrando le opportunità che mi si sono presentate davanti. Non credo si tratti di coraggio ma di semplice istinto di sopravvivenza. Il coraggio, per quanto sia un concetto su cui ho idee contrastanti, è altra cosa.

Come dicevo a inizio post temo di non essere molto chiaro. Ma sono pensieri che mi frullano per la testa da anni e preferisco tentare di chiarirmi parlandone pubblicamente che rischiare che mi frullino il cervello.

domenica 8 aprile 2012

Buona Pasqua!

Mi piace credere che dentro non abbiano la sorpresa

E che il coniglio pasquale ce la mandi buona a tutti.

martedì 3 aprile 2012

[LO SPIEGA MEGLIO] Christopher Nolan e le scene d'azione.

[LO SPIEGA MEGLIO] Rubrica aperiodica in cui vi linko post, video o altra roba in cui gente più brava e preparata di me spiega meglio concetti e idee che mi passano per la testa.

Jim Emerson è un critico e studioso del cinema. Ha creato un video in cui sostiene che una sequenza d'azione di The Dark Knight di Christofer Nolan è zeppa di errori. Si tratta di quella in cui Harvey Dent viene scortato da un convoglio della polizia e attaccato dal Joker. L'arrivo di Batman salva la giornata. Il video lo trovate qua sotto e penso sia di sicuro interesse per chi è appassionato di cinema.

In the Cut, Part I: Shots in the Dark (Knight) from Jim Emerson on Vimeo.


Vedere il video, se non sbaglio per una segnalazione di Elvezio, mi ha aiutato a chiarirmi come mai la sequenza mi avesse sempre lasciato un senso di confusione più che di suspense o eccitazione. La disamina di Emerson mi piace perché può essere vista come una piccola lezione sugli errori da non fare quando si deve ideare e mettere in scena una scena d'azione. Materiale ottimo sia per gli appassionati che per chi vuole provare a raccontare storie.

Emerson però non si limita a The Dark Knight, ma smonta anche una scena che a suo vedere funziona bene. Si tratta di un inseguimento tratto da Salt, il film action con Angelina Jolie del 2010. Il video è qua sotto ed è nuovamente una buona dimostrazione e spiegazione di come si può affrontare una scena rendendola efficace.

In the Cut, Part II: A Dash of Salt from Jim Emerson on Vimeo.


Io il film non l'ho mai visto ma devo ammettere che guardando il video un po' la voglia mi ha preso. Dall'analisi risulta come l'azione venga seguita passo passo, dando allo spettatore modo di capire cosa succeda e permettendogli di seguire l'azione più che di subirla.

Chiude il trio di lezioni un'analisi di The Lineup, film di Don Siegel del '54. Altro film che non ho mai visto ma che dalla sola scena mostrata pare essere invecchiato molto bene. Ho visto invece Bullit e Il braccio violento della legge, le cui sequenze d'inseguimento in macchina sono usate come altri esempi da seguire per tenere desta l'attenzione dello spettatore, spiegargli le cose per bene e soprattutto raccontargli una storia. Il video lo trovate qua sotto.

In the Cut Part III: I Left My Heart in My Throat in San Francisco from Jim Emerson on Vimeo.


Spero possano tornarvi utili o anche solo incuriosirvi e farvi guardare i film con un occhio più allenato e indagatorio.

lunedì 26 marzo 2012

Lisa Bufano is mentally fine

All’età di 21 anni Lisa subisce l’amputazione delle gambe sotto il ginocchio e la perdita di tutte le dita di entrambe le mani.


Non c'è trucco non c'è inganno
Nata nel 1978 Lisa diventa una ginnasta da ragazzina e durante il college si appassiona alla danza diventando una Go-go Dancer. Sono evidentemente passioni più forti di qualsiasi cosa, se nemmeno le amputazioni subite a causa di un’infezione batterica molto grave l’hanno fermata.



Negli anni successivi continua il suo percorso di ballerina e artista. Invece di nascondere la propria invalidità e mutilazione, mostra le sue parti mancanti in spettacoli danzanti di varia natura. In Five Open Mouths racconta l’esperienza traumatica del risveglio successivo alle amputazioni, sottolineando lo shock subito e il tentativo di metabolizzarlo e superarlo. Questo percorso di riconquista del proprio corpo la porta a usarlo come fosse una vera e propria prop di scena. Esempio perfetto è l’uso di protesi inconsuete, come le gambe da tavolo d’epoca vittoriana che usa per le gambe e per le braccia. Il risultato è allo stesso tempo disturbante in questa commistione tra carne e legno, ma dona anche in un certo fascino ai movimenti dal ritmo poco umano a cui è costretta.


Mostrare la propria condizione allo spettatore, rendendola così evidente da non poter essere ignorata, crea disagio e curiosità in buona parte del pubblico. Mutilazione, malattia e in generale tutto quanto non rientra nel canonico senso della normalità vengono recepiti come qualcosa di sbagliato, da nascondere e di cui provare vergogna. Lisa decide invece di sfruttarla come punto di partenza per le proprie performance. Quando si rinchiude in una teca trasparente armata delle proprie protesi e danza senza musica con movimenti tra l’insetto e l’umano, si mostra ai passanti di una normale strada. Potete vedere il video di questa performance qui. Un collaboratore riprende lei ma soprattutto alcuni spettatori di passaggio. Una signora chiede “Is that a person?” E dopo qualche secondo “But mentally she’s fine?”.



Due domande che credo decretino il successo della performance e più in generale del percorso che Lisa sta seguendo. Quando il corpo di una persona cessa di essere incasellabile senza problemi in quanto percepiamo come normale e congruo, sembra che di conseguenza crollino anche l’umanità e la sanità mentale della persona. Da qui la necessità per chi si trova a non possedere più il proprio corpo di studiare se stesso e l’effetto che la propria immagine provoca negli altri.



In un altro video Lisa (clicca qua che te lo apre in un'altra finestra), indossate le protesi e accompagna da musica, balla in maniera lenta e sensuale. Questa volta le reazioni mi sembrano diverse. Sarà la musica, sarà il contatto che instaura fissando gli spettatori che la fissano o il fatto che si tratti di una performance all'interno di uno spazio canonico, ma mi pare siano più affascinati e meno repulsi dal suo corpo. E non mi stupirei se alcuni non si rendessero del tutto conto delle mutilazioni di lei. 



Attualmente Lisa sta preparando un nuovo spettacolo, questa volta incentrato sulla Lyra. Come vedete nella foto qua sotto si tratta di un cerchio da acrobata. Fatico a immaginare in che modo riuscirà a dominare la lyra e il suo corpo, so solo che non vedo l’ora che spunti un suo video in cui si mostra e dimostra di non mollare mai.



Qua trovate il suo sito ufficiale.

martedì 6 marzo 2012

50/50 - Joseph Gordon Levitt & Seth Rogen contro Il Cancro




Credo che il significato di una storia stia tanto nella mente di chi la crea quanto in quella di chi la ascolta. Tanto più la storia tocca temi cari a narratore e ascoltatore, tanto più vale questo principio, tanto più saranno diverse le impressioni suscitate. 



Inutile girarci intorno.
In 50/50 il protagonista interpretato da Levitt è un quasi 30enne a cui viene diagnosticato un tumore. Il titolo si riferisce alle sue probabilità di farcela. Il film è stato scritto da uno che ci è passato sul serio. Seth Rogen, che nel film è l'amico del protagonista, è amico di quello che il film lo ha scritto e a quanto pare interpreta fondamentalmente se stesso.
GI Jane te lo sgrulla, amico.
Con queste premesse, io e chi come me si è sentito diagnosticare un cancro recepiamo un film del genere in maniera penso diversa da chi non ha mai avuto un problema del genere. Allo stesso modo sono convinto che chi conosce una persona che ci è passata attraverso, si tratti di amico, figlio, genitore o persona amata, la veda in maniera ancora differente.
Frasi da non dire mai a chi ha il cancro.
Tutto sto preambolo per dire che credo di non poter essere molto obiettivo dicendovi che 50/50 è un bel film. Per me è semplicemente un film che racconta buona parte di cose che mi sono successe, e spesso lo fa con lo stesso tono che userei io se dovessi raccontarle in un film.
Bromance.
In particolare credo riesca a far passare bene lo stato di stordimento in cui ci si trova nel periodo che va dalla prima diagnosi al momento in cui si entra in sala operatoria, che è il focus dell'intero film. E' una sorta di limbo in cui se da una parte si prova una certa calma e perfetta percezione di quanto accade a se stessi e intorno a noi, dall'altra ci si sente del tutto sconnessi e isolati dal resto. Convivendo con quello che è al contempo un dubbio e una certezza di stare per morire, si perde l'idea che ci sia un senso nelle proprie azioni e che valga la pena fare alcunché. I rapporti sociali e famigliari si sfilacciano, il sentirsi parte del mondo dei vivi è una sensazione che si fa giorno dopo giorno meno sicura.
"I don’t know why everybody’s so fucking scared to just say it, like, ‘you’re dying, dude.’ It makes it worse, that no one will just say it.”
Ad esempio la sequenza in cui Levitt, convinto da Rogen, sfrutta il cancro per portarsi a letto una ragazza appena conosciuta, mi sembra un ottimo esempio di questo senso di insensatezza e vuoto. Nonostante riesca a finire a letto con lei, i due smettono di fare sesso a causa della stanchezza e dei dolori di lui indotti dalla chemio e dalla malattia. Ma considerando quello che dice e il modo in cui reagisce Levitt prima e dopo, pare di capire che sfrutti di nuovo la malattia come scusa. Questa volta per non dover ammettere che non vedendosi vivo da li a poco, una scopata e via ed un’eventuale relazione perdono di senso.

Rule 34 a parte, si intende.
Ma come dicevo in apertura, magari sono io che vedo troppe cose mie nella storia di un altro. Ogni persona reagisce in maniera diversa di fronte ad eventi traumatici, per cui altri possono considerare il film una cagata fotonica. Non c'è problema. Si tratta di reazioni così personali che discuterne perde di senso.

Detto questo, penso che comunque il film goda di interpretazioni molto buone soprattutto da parte di Levitt e Rogen. Quest'ultimo in particolare riesce a dire le sue battute atroci con il tono giusto che gli permette di far ridere senza sfociare nel ridicolo o nel forzato. E nonostante si percepisca la profonda amicizia che c'è tra i due, questa viene fuori dalle azioni e reazioni di uno nei confronti dell'altro invece che da momenti di stucchevole buonismo.

Certo, ci sono scampoli di cliché come i vecchietti arzilli che Levitt conosce durante la chemio, o la storia d'amore con la terapista che nasce durante la malattia e che intuiamo potrebbe funzionare una volta conclusosi il film. Si tratta di cliché gestiti abbastanza bene e risultano discretamente convincenti, grazie soprattutto a dialoghi che evitano quasi sempre frasi fatte e di circostanza e a situazioni che fanno più intuire che mostrare quello che pensa e prova il protagonista.
:iknowthefeelbro:
Di sicuro pecca nel rappresentare come al solito la malattia in maniera troppo pulita e asettica, con malati che sembrano sempre appena usciti dalla sala trucco, ferite perfette e totale assenza di sangue e merda.

Ma lo scopo del film non è mostrare quanto faccia schifo dal punto di vista fisico/fisiologico e possa essere ripugnante la malattia, per cui posso passarci sopra. Anche perché si riscatta evitando pietismo, scene strappalacrime (anche se un paio toccanti ci sono, ma di nuovo magari toccano me perché innestano ricordi) e non lesinando in umorismo.
A volte bisogna sentirselo dire.
Non è il film che consiglierei per una serata in allegria, ma se l’argomento per un qualsiasi motivo è di vostro interesse, potreste trovarci qualcosa di significativo.

giovedì 1 marzo 2012

Corso di sceneggiatura a Genova

Settimana prossima parte la quarta edizione di Professione Sceneggiatore, il corso di narrazione tenuto da Sergio Badino.

Si tiene all'Accademia Ligustica e avete tempo per iscrivervi fino al 6 marzo, giorno d'inizio corso. Qua tutte le info.

Premesso che io e Sergio ci conosciamo da anni e che condividiamo lo stesso studio da qualche tempo, spendo due parole sul corso. Io l'ho seguito per tre anni di fila, per vari motivi.

Il primo anno avevo bisogno di rimettermi in moto dopo il periodo di malattia e ho pensato che un corso fosse uno sprone a ricominciare a fare. Perché scrivere è un'attività anche fisica. Così è stato, perché Sergio ha un approccio molto pratico alla scrittura. Si analizzano storie più o meno note per capire come funzionano, si studiano i principi della narrazione e soprattutto si scrive. Molto. Da una lezione all'altra c'è sempre un compito a casa da ideare, elucubrare e scrivere. Volendo sfruttare bene il corso, tocca prendere un ritmo costante alla tastiera, cosa che io avevo perso.

La pratica della scrittura è uno dei mattoni fondanti per chiunque voglia scrivere per lavoro. Questo martellare sulla pratica e sulla consegna dei compiti a casa di Sergio è stato ottimo per il sottoscritto.

Durante il corso inoltre ho avuto anche la fortuna di conoscere un po' di persone interessanti che amano la scrittura e con cui scambiare pareri sui propri lavori. Ed è un motivo in più per cui mi sono iscritto la seconda volta. Sentivo la necessità di mettermi in gioco con altri scrittori per imparare sia a scrivere meglio sia a saper discutere con sconosciuti del mio lavoro e del loro. Nel corso del corso ( heh ) si instaura una dialettica che ho trovato molto stimolante e utile. Si accumulano spunti, suggestioni e influenze che arricchiscono, non solo dal punto di vista professionale.

Inoltre durante secondo anno sono stato piacevolmente colpito da una cosa: Sergio ha rivisto e ricalibrato il corso mettendoci qualcosa di nuovo. Se la teoria si fonda su determinati principi che rimangono gli stessi, a cambiare sono gli esempi studiati per capire questi prinicpi. Per cui da un anno all'altro mi sono trovato a rivedere e smontare film diversi, a conoscere autori nuovi e soprattutto a dover fare compiti a casa radicalmente diversi dall'anno precedente. Credo sia un ottimo metodo per non rimanere fossilizzati sui propri orizzonti e provare a guardare più in là, che magari si scopre qualcosa che ci piace.

Motivo nuovo e foriero di cose interessanti per cui mi sono iscritto una terza volta, l'anno scorso. E sono convinto di aver fatto bene, perché ancora una volta ho conosciuto gente interessante con cui scambiare opinioni, ancora una volta Sergio ha fatto cose nuove che mi hanno fatto conoscere nuoti autori e nuove storie e ancora una volta ho dovuto fare un sacco di compiti, che mi hanno costretto a scrivere cose diverse dal solito facendomi usare stili e tecniche che non avevo mai provato. In sostanza, ogni anno mi sono trovato alla fine del corso più arricchito che all'inizio.

Per cui se vi interessa imparare a raccontare e avete voglia di mettervi in gioco, l'occasione è secondo me ghiotta.

lunedì 13 febbraio 2012

La mia cicatrice del trapianto di fegato.

Ogni tanto io mi metto a cercare foto di cicatrici chirurgiche, in particolare di chi ha subito trapianto di fegato o operazioni legate al cancro. Mi chiedo sempre come sia andata agli altri e che segni fisici si portino dietro. Mi è venuto in mente che probabilmente non sono l'unico a farlo, per cui mi sono detto "Ricambiamo il favore, va" e dopo averci rimuginato un po' su ho deciso di fotografarmi la panza e metterla qua sul blog. Magari è NSFW, ma dipende da quanto la possiate trovare sexy e/o disturbante.

Clicca che s'ingrossa

Dato che come fotografo faccio discretamente cagare e non so quanto sia chiara la foto, ve la spiego. Si tratta di due cicatrici sovrapposte. Quella del trapianto è la più recente, è quella che sembra una Y rovesciata e passa dalla destra alla sinistra sul mio addome, salendo al centro verso lo sterno. Questa è stata fatta sulla precedente, quella della resezione epatica, che è sempre tipo una Y rovesciata, ma con solo il braccio in alto e quello alla sinistra di chi guarda. Poi qua e là si vedono i segni dei drenaggi post operatori e quello del drenaggio biliare da cui usciva il Tubo di Kher, che dal nome sembra un attrezzo da super eroe. Nella realtà è un tubicino di plastica che esce dall'addome, poco sotto le costole ad altezza fegato, per drenare la bile e che mi sono tenuto in loco per tre mesi. Comodissimo durante il sonno.

Non nego poi che mostrare la cicatrice non mi mette esattamente a mio agio, più per quello che mi ricorda che per l'aspetto estetico in se. Magari buttandola nel web e guardandola attraverso il monitor riesco a vederla in maniera più distaccata. O magari no. Ma se non provo non lo saprò mai.

Come minimo spero possa essere utile a chi dovesse per qualsiasi motivo farsi un'idea del percorso post-trapianto. Per altro la mia non è delle più belle, per cui nel caso non fatevi infartare.

lunedì 16 gennaio 2012

The robots of dawn - Isaac Asimov

Elijah Baley found himself in the shade of the tree and muttered to him, self, "I knew it. I'm sweating."
He paused, straightened up, wiped the perspiration from his brow with the back of his hand, then looked dourly at the moisture that covered it.
"I hate sweating," he said to no one throwing it out as a cosmic, law. And once again he felt annoyance with the Universe for making something both essential and unpleasant.
One never perspired (unless one wished to, of course) in the City, where temperature and humidity were absolutely controlled and where it was never absolutely necessary for the body to perform in ways that made heat production greater than' heat removal.
Now that was civilized.
He looked out into the field, where a straggle of men and women were, more or less, in his charge. They were mostly youngsters in their late teens, but included some middle-aged people like himself. They were hoeing inexpertly and doing a variety of other things that robots were designed1to do-and could do much more efficiently had they not been ordered to stand aside and wait while the human beings stubbornly practiced.
Generated by ABC Amber LIT Converter, http://www.processtext.com/abclit.html
There were clouds in the sky and the sun, at the moment, was going behind one of them. He looked up uncertainly, On the one hand, it meant the, direct heat of the sun (and, the sweating) would be cut down. On the other hand, was there a chance of rain?
That was the trouble with the Outside. One teetered forever between unpleasant alternatives.
It always amazed Baley that a relatively small cloud could cover the sun completely, darkening Earth from horizon to horizon yet leaving most of the sky blue.
He stood beneath the leafy canopy of the tree (a kind of primitive wall and ceiling, with the solidity of the bark comforting to the touch) and looked again at the group, studying it. Once a week they were out there, whatever the weather.
They were gaining recruits, too. They were definitely more in number than the stout-hearted few who had started out. The City government, if not an actual partner in the endeavor, was benign enough to raise no obstacles.
To the horizon on Baley's right-eastward, as one could tell by the position of the late-afternoon sun-he could see the blunt, many-fingered domes of the City, enclosing all that made life worthwhile. He saw, as well, a small moving speck that was too far off to be made out clearly.
From its manner of motion and from indications too subtle to describe, Baley was quite sure it was a robot, but that did -not surprise him. The Earth's surface, outside the Cities, was the domain of robots, not of human beings-except, for those few, like himself, who were dreaming of the stars.
Automatically, his eyes turned back toward the hoeing star dreamers and went from one to the other. He could identify and name each one. All working, all learning how, to endure the Outside, and
He frowned and muttered in a low voice, "Where's Bentley?"

The robots of dawn - Isaac Asimov


lunedì 9 gennaio 2012

The Naked Sun - Isaac Asimov

A Question Is Asked

Stubbornly Elijah Baley fought panic.
For two weeks it had been building up. Longer than that, even. It had been building up ever since they had called him to Washington and there calmly told him he was being reassigned.
The call to Washington had been disturbing enough in itself. It came without details, a mere summons; and that made it worse. It included travel slips directing round trip by plane and that made it still worse.

Partly it was the sense of urgency introduced by any order for plane travel. Partly it was the thought of the plane; simply that. Still, that was just the beginning of uneasiness and, as yet, easy to suppress.
After all, Lije Baley had been in a plane four times before. Once he had even crossed the continent. So, while plane travel is never pleasant, it would, at least, not be a complete step into the unknown.
And then, the trip from New York to Washington would take only an hour. The take-off would be from New York Runway Number 2, which, like all official Runways, was decently enclosed, with a lock opening to the unprotected atmosphere only after air speed had been achieved. The arrival would be at Washington Runway Number 5, which was similarly protected.

Furthermore, as Baley well knew, there would be no windows on the plane. There would be good lighting, decent food, all necessary conveniences. The radio- controlled flight would be smooth; there would scarcely be any sensation of motion once the plane was airborne.
He explained all this to himself, and to Jessie, his wife, who had never been air-borne and who approached such matters with terror.
She said, "But I don't like you to take a plane, Lije. It isn't natural. Why can't you take the Expressways?"

~Because that would take ten hours"-Baley's long face was set in dour lines- "and because I'm a member of the City Police Force and have to follow the orders of my superiors. At least, I do if I want to keep my C-6 rating."
There was no arguing with that.

Baley took the plane and kept his eyes firmly on the news-strip that unreeled smoothly and continuously from the eye-level dispenser. The City was proud of that service: news, features, humorous articles, educational bits, occasional fiction. Someday the strips would be converted to film, it was said, since enclosing the eyes with a viewer would be an even more efficient way of distracting the passenger from his surroundings.
Baley kept his eyes on the unreeling strip, not only for the sake of distraction, but also because etiquette required it. There were five other passengers on the plane (he could not help noticing that much) and each one of them had his private right to whatever degree of fear and anxiety his nature and upbringing made him feel.

Baley would certainly resent the intrusion of anyone else on his own uneasiness. He wanted no strange eyes on the whiteness of his knuckles where his hands gripped the armrest, or the dampish stain they would leave when he took them away.
He told himself: I'm enclosed. This plane is just a little City. But he didn't fool himself. There was an inch of steel at his left; he could feel it with his elbow. Past that, nothing- Well, air! But that was nothing, really.

A thousand miles of it in one direction. A thousand in another. One mile of it, maybe two, straight down.
He almost wished he could see straight down, glimpse the top of the buried Cities he was passing over; New York, Philadelphia, Baltimore, Washington. He imagined the rolling, low-slung cluster complexes of domes he had never seen but knew to be there. And under them, for a mile underground and dozens of miles in every direction, would be the Cities.

The endless, hiving corridors of the Cities, he thought, alive with people; apartments, community kitchens, factories, Expressways; all comfortable and warm with the evidence of man.

And he himself was isolated in the cold and featureless air in a small bullet of metal, moving through emptiness.

The Naked Sun - Isaac Asimov