giovedì 31 maggio 2012

Paperi Volanti ovvero sono su Topolino

Su Topolino 2949 che trovate in edicola in questi giorni c'è una mia autoconclusiva di cui vi agevolo la prima vignetta qua sotto, con tanto di naso e mezzo sguardo del sottoscritto. Oh, ognuno propone i contenuti speciali che si può permettere.
Eccomi in un disastroso tentativo di imitare l'espressione di Paperino.  


Per chi se lo chiede, le autoconclusive sono le storie da una pagina sola. Funzionano come le strip, solo che si sviluppano nelle sei vignette tipiche del formato Disney.

A me scrivere autoconclusive piace. Non ho ancora abbastanza esperienza sul campo per rendermi conto fino in fondo se mi sono più congeniali rispetto ad altre metrature. Che non significa più o meno semplici nella realizzazione. Credo che ciascuna lunghezza abbia i suoi pro e contro. Di sicuro so che da lettore ho una discreta predilezione per le storie corte, brevi o brevissime. In generale, non parlo solo di fumetto Disney. Anzi, non parlo solo di fumetto.

Ad esempio amo molto i cortometraggi e i racconti brevi. E spesso mi delizio nel guardare sketch comici di autori con le palle che durano pochissimi minuti.

Per cui trovarmi a scrivere storie brevi o autoconclusive mi lascia un certo senso di "Finalmente posso provarci pure io!". Se poi funzionano o meno e se fanno ridere, lo decide solo il lettore.

lunedì 21 maggio 2012

Baciami come Gene Wilder

Frankenstein Jr. è il frutto della collaborazione tra Mel Brooks e Gene Wilder. Anzi, Gene Wilder ne è stato il promulgatore, trattandosi di una sua idea a cui ha lavorato per diverso tempo prima di proporla a Brooks.

Frankenstein Jr. è tra i pochi film che io guardo almeno una volta all’anno da che ho memoria. Ogni volta rido, o perché anticipo le battute che ormai so a memoria, o perché riesce ancora a stupirmi. Credo sia una delle storie che più mi abbiano influenzato a livello di umorismo. Influenza non cercata ne studiata, ma semplicemente assimilata.

Quindi se a me piace un certo tipo di umorismo, sia che si tratti di assumerlo o proporlo, buona parte della colpa è di Gene Wilder. Normale che mi sia letto la sua autobiografia. Normale che l’abbia trovata molto divertente e interessante. Curioso che vi abbia trovato descritto dentro un uomo pieno di paure, che ha passato diverse crisi esistenziali e che ha avuto un rapporto difficile con gli altri, in particolare con le donne. Rassicurante che Wilder riesca a parlare delle proprie sfighe personali con una leggerezza e ironia che secondo me riesce allo stesso tempo a stemperarle e a dar loro un peso maggiore sul suo percorso di crescita.

Gilda, Sparkle, Gene.
Voglio partire dal fondo. Wilder si è spostato negli anni ‘80 con Gilda Radner, comica strepitosa del SNL. Gilda si è ammalata di cancro e ha dovuto subire un intervento. I due aspettano che i dottori diano il via libera al ritorno a casa.  E il segnale di via libera ve lo lascio descrivere da Wilder:

“Trascorse quasi due settimane intere al Mount Sinai Hospital con un sondino nasogastrico nel naso. Lo odiava, come tutti, ma non potevano rimuoverlo finché non ci fossero stati segni di ripresa della funzionalità intestinale. E il segno tangibile che i medici stavano aspettando era un’incontrovertibile scorreggia. Dopo dieci giorni lei produsse una piccolissima, graziosa scorreggia.”

Credo che in questo passaggio ci sia racchiusa buona parte della visione del mondo di Wilder. La capacità di cogliere aspetti ridicoli, dissonanti e grevi della vita, e di raccontarli con leggerezza e sincerità. Inoltre penso ne esca anche l’amore di Wilder per la moglie che, da li a poco, morirà.

Raccontare in questo modo così efficace la gretta realtà della vita non so se sia un dono di natura, di sicuro però è una capacità che viene affinata nel tempo lavorando molto. Wilder dice di aver imparato osservando come hanno fatto quelli prima di lui. Mi verrebbe da fare un distinguo tra recitare e scrivere, ma sostanzialmente si tratta in entrambi casi di raccontare qualcosa. Per cui che un grande attore sappia anche raccontare, per quanto magari non sia la norma, non è del tutto eccezionale.

Wilder cita tra le sue influenze Chaplin. Mi pare giusto, si deve guardare ai più grandi se si vuole anche solo sperare di essere poco più che mediocri nel proprio mestiere. L’insegnamento che desume da Chaplin è quello di non esagerare, non forzare, non strafare. Come dice Gene:

“Se l’azione o il gesto fisico che stai compiendo è divertente di per sé, non devi calcare la mano recitando in maniera buffa… Sii naturale e il divertimento aumenterà.”

Sono convinto ci sia del buono anche per chi scrive in questa frase.
 
Non so se Wilder abbia tenuto fede a questo approccio 24/7 per tutta la sua carriera, ma di certo è che alcuni suoi ruoli strepitosi sembrano seguire il consiglio fino in fondo. 


Mi viene in mente soprattutto la sequenza tratta da Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, di Woody Allen, in cui Gene interpreta un dottore che si innamora di una pecora. Un’idea che poteva essere rovinata se resa in maniera volgare o strombazzata, risulta per me fenomenale grazie alla recitazione piana e discreta di Wilder. Lo stesso Allen dice che ha scelto Gene perché gli serviva un attore che sapesse rendere credibile l’innamoramento di un uomo per un animale. Il risultato mi sembra dargli ragione.

Come dicevo, recitazione o scrittura cambia poco quando si parla di attitudine al racconto. Prendete il passaggio in cui Wilder racconta la sua esperienza con i preservativi. Accadde circa un mese dopo la morte della madre:

“Poi capitò una cosa strana: circa un mese dopo comprai per la prima volta un preservativo. Non sapevo esattamente come usarlo; mi sembrava complicato. Mi chiedevo quando indossarlo di preciso, se occorresse chiedere l’aiuto della donna, quando toglierlo… Naturalmente, la domanda più calzante sarebbe dovuta essere: “Qual è la donna a cui chiedi, nel bel mezzo di una chiacchierata, di aiutarti a infilare un pezzo di gomma sul pene?”
A proposito, già all’epoca non pregavo più così tanto.”


Il suo rapporto col sesso e con l’altro sesso viene affrontato in maniera molto franca nell’autobiografia, raccontando dei matrimoni falliti e del rapporto difficile e sofferto con la figlia adottiva. Tutto quanto raccontato però senza patetismi e, per quel che si può capire sentendo una sola campana, in maniera molto sincera.

Quindi che abbia scritto Il più grande amatore del mondo, di cui è anche protagonista, sembra quasi un modo per raccontare e forse esorcizzare i suoi trascorsi di amante. Ad esempio racconta così un suo incontro da una botta e via con una certa Karla, in un periodo nerissimo del suo primo matrimonio.

“Ero sul punto di bussare alla porta di Karla, quando sentii la voce di un uomo  provenire dall’appartamento, e poi anche quella di Karla. Pensai: Sarà un vicino, un parente, chissà? Bussai.
Venne ad aprirmi Karla. Scorsi quello che mi parve un uomo d’affari ben vestito che infilava la camicia nei pantaloni. Allungò una mano per prendere la sua giacca e Karla ci presentò. Non ricordo come si chiamasse, di lui ricordo soltanto il particolare della camicia.
L’uomo si congedò con molta educazione e Karla mi invitò a entrare e a mettermi a mio agio. (Avevo capito bene? Si supponeva che io dovessi pagarla?).
Mi offrì del caffé e poi mi invitò nella sua camera da letto, come se ci fossimo già messi d’accordo prima. Karla incominciò a spogliarsi. Dopo qualche goffo momento di titubanza, mi spogliai anch’io.
“Sai che c’è” mi fece “ultimamente sono diventata ninfomane.” Alla frase seguì una risatina.
“A questo punto della mia vita mi sento un po’ sola. Questo è quanto. Spero che non ti dispiaccia”.
“A me? No, certo che no” (Mio Dio che sto dicendo? Mi sembra di essere Woody Allen)
M’infilai nel letto insieme a lei, ci scambiammo qualche bacio e subito dopo lei se “lo” infilò dentro. Penso che a voler contare si sarebbe arrivati a sette-otto e poi boom!
Cercai di essere il più gentile possibile, compatibilmente con l’assurdità della situazione. E in effetti anche lei si sforzò di fare altrettanto. Volevo soltanto uscirmene. Dopo una serie di educati ringraziamenti, pronunciai un educato “Buonanotte, Karla” e me ne andai.”


Tutto un altro universo rispetto al rapporto con Gilda, che suggerì a Gene un titolo da usare prima o poi, Baciami come uno sconosciuto, poche settimane prima di morire. Wilder racconta di aver visitato spesso la tomba di Gilda, in compagnia del cagnolino Sparkle:

“Mi recavo al cimitero più volte a settimana solo per dire qualche parola a Gilda e per permettere a Sparkle di fare pipì sulla sua tomba. Sapevo che Gilda ne sarebbe stata felice.”

Scene così le crea solo la vita e l'autobiografia ne è zeppa.



lunedì 14 maggio 2012

Trazioni alla sbarra - più zavorra per la vittoria!

Appendersi a una sbarra e tirarsi su con un braccio solo è una delle cose che mi sono ripromesso di riuscire a fare quest’anno. Come tutto, si tratta di una capacità a cui si arriva un passo alla volta. Uno dei metodi consigliati per riuscirci è quello di allenarsi a fare le trazioni alla sbarra con due braccia legandosi una zavorra alla vita, arrivando ad aggiungere metà del proprio peso in zavorra.




Ora come ora riesco a fare una trazione completa aggiungendo 20kg. Dato che il mio peso corporeo oscilla stabilmente da qualche mese tra i 78 e gli 80 kg, devo arrivare a fare una trazione con 40kg di zavorra.


 
 
Ergo da oggi inizio un allenamento mirato ad aumentare il sovraccarico e che, allo stesso tempo, dovrebbe allenare anche il numero di ripetizioni totali nelle trazioni a vuoto. Tirando solo su me stesso, riesco a completarne 6 ben fatte, 10 spingendomi col bacino. Ma facciamo gli onesti e diciamo che ora come ora ne so fare 6 prima che mi si stacchino le braccia.
 
 


Il programma, che ho preso dal sito di Iron Paolo (che per quanto prolisso è molto interessante se vi interessate di allenamento legato alla forza e nello specifico al powerlifting), dura 4 settimane. Non so bene che margine di miglioramento aspettarmi. L’importante è che il miglioramento ci sia, tanto non c’è fretta. Fra quattro settimane vi racconto come va a finire.

P.S. Io le trazioni le faccio con la presa supina, quelle che gli americani chiamano chin-up. Per capirci, afferro la barra come le ragazze nelle foto che vedete in questo post.





giovedì 3 maggio 2012

Cancro e trapianto non mi rendono coraggioso.


Temo che questo post sarà un po’ confuso, ma mi gira in testa da tempo e spero che scriverlo mi chiarisca le idee ed mi aiuti a spiegarmi con gli altri.

Qualche tempo fa ho linkato nei vari social network la seguente citazione:

"I have had cancer, and had all too many hours, days and weeks of hospital routine robbing me of my dignity. Although people in my situation are always praised for their courage, actually courage has nothing to do with it. There is no choice." (RogerEbert)

che in italiano suona più o meno:

“Ho avuto il cancro, e ho avuto troppe ore, giorni e settimane di routine ospedaliera a rubarmi la dignità. Anche se le persone nella mia situazione sono sempre lodate per il loro coraggio, in realtà il coraggio non ha nulla a che vedere con questo. Non c’è scelta.”

Più di un amico e amica mi ha detto di non essere d’accordo con questa frase, e di non capire perché invece io, che il cancro l’ho avuto, la sottoscriva parola per parola. Trattandosi di una situazione estrema, mi rendo conto che la reazione di ciascuno è diversa, sia sul momento, che sul lungo termine. Quindi sia chiaro che quando penso che il coraggio non c’entri nulla con l’affrontare il cancro, parlo del mio cancro, della mia persona e della mia esperienza personale. Altre persone la vivono in maniera diversa.

Credo che il succo sia racchiuso nelle ultime quattro parole : “There is no choice/Non c’è scelta.”

Quando mi hanno diagnosticato il cancro la prima volta, mi hanno spiegato per filo e per segno cosa avrei dovuto fare: operazione per asportare circa l’80% del fegato, che era ripieno di cancro, e passare i 12 mesi successivi assumendo farmaci giornalmente. A quel punto mi chiesero se avevo intenzione di procedere.

“E se non lo faccio?”

“Muori.”

Ora, non so voi, ma se da una parte c’è un’offerta per una probabile guarigione, e dall’altra la discreta certezza di morire mangiato vivo da un tumore, scegliere la probabile guarigione non mi pare una scelta coraggiosa, quanto una semplice necessità.

Oltretutto, per quanto tenda a vedere il ridicolo e l’assurdo in ogni situazione, come quando mi dissero

“Lei ha un tumore maligno di 1,5kg che ha invaso l’80% del suo fegato, ma per il resto il fegato è del tutto funzionante e sano!”

non significa che non abbia avuto o abbia ancora paura. Perché per quanto si stringano i denti, si ponderi la situazione in maniera il più possibile distaccata e ci si dica che andrà tutto bene, la frase “Lei ha un tumore” alza il volume della paura sulla tacca dell’11.

Quando questa viene seguita da frasi come “E’ operabile” “Ci possiamo lavorare” “Ci sono farmaci che danno buone probabilità” la paura s’abbassa un po’ ma rimane li come una nebbia di piombo che ti attraversa i polmoni. Nel mio caso poi i polmoni non si potevano espandere del tutto perché il fegato era così ingrossato da spingere sul diaframma lasciandomi sempre col fiato corto.

Occluso da questo senso di oppressione, la sensazione di coraggio penso non mi abbia mai nemmeno sfiorato di striscio. Forse quello che ho provato e che chi mi è stato intorno ha preso per coraggio è stata solo lucidità e assenza di tentennamento.

Sapere con precisione cosa mi avrebbero fatto i dottori e i chirurghi mi ha dato una certa illusione di avere la situazione sotto controllo. Credo sia questa ricerca di risposte che tolgono i dubbi ad avermi portato negli ultimi anni a cercare informazioni su cancro, trapianto e strategie di cura ad essi correlate in maniera che mi rendo conto essere un filo ossessiva. Ma ho scoperto che avere una risposta ai dubbi di chi mi sta accanto, dubbi che a volte non vengono in mente nemmeno a me, mi è di aiuto a credere che ci sia una via all’accettazione di quanto mi è successo e a una convivenza con lo stato di non essere del tutto sano.

Questa serie di pensieri e reazioni si è ripresentata con la recidiva di tumore e la necessità di sottopormi al trapianto. E sottolineo nuovamente: necessità.

La seconda diagnosi, la recidiva, il ritorno del cancro oscuro, è stata una botta ben peggiore della prima. Sia perché è stata del tutto asintomatica, sia perché dopo un paio d’anni dalla prima operazione cominciavo a sentirmi bene e a pensare che tutto sommato fosse finita.

Di nuovo, quando mi dissero che l’opzione era il trapianto, non mi sentii per nulla coraggioso ad accettare. Di nuovo, la lucidità e la caduta di quasi ogni tentennamento mi si sono infilati dentro insieme all’oppressione. E come la prima volta, ho cominciato a ricercare in rete tutto quanto potevo sapere su trapianto, statistiche di riuscita dell’operazione, percentuali di sopravvivenza a breve e lungo termine e il racconto di esperienze dirette di chi ci è passato.

Anche nel periodo pre e post trapianto mi sono sentito dare del coraggioso e di nuovo ho vissuto questi commenti in maniera combattuta. Da una parte comprendo il desiderio di chi ci è vicino di dare in qualche modo il proprio supporto, ma dall’altra sentivo come questo termine fosse fuorviante.

Forse è perché ho problemi con il termine coraggio e la sua aura di romantico ardimento, considerando invece gli atti cosiddetti coraggiosi semplicemente azioni necessarie che per fortuna qualcuno si prende la briga di compiere.

Ad aver dimostrato davvero coraggio sono semmai le tre persone che mi hanno detto chiaro e tondo che in caso di necessità si sarebbero offerte di tentare la strada del trapianto da vivente. Questo significa assumersi un rischio alto sia nel momento dell’operazione, sia dover affrontare il dubbio di un qualsiasi tipo di complicanza sul medio e lungo termine. Rischi decisi per salvare un’altra persona e non se stessi. Eventi necessari ed estremi che portano fuori l’intimità di una persona e forse la sua visione di cosa sia giusto e sbagliato fare.

Io invece ho solo deciso di salvare me stesso in entrambe le occasioni, afferrando le opportunità che mi si sono presentate davanti. Non credo si tratti di coraggio ma di semplice istinto di sopravvivenza. Il coraggio, per quanto sia un concetto su cui ho idee contrastanti, è altra cosa.

Come dicevo a inizio post temo di non essere molto chiaro. Ma sono pensieri che mi frullano per la testa da anni e preferisco tentare di chiarirmi parlandone pubblicamente che rischiare che mi frullino il cervello.