giovedì 24 dicembre 2015

Non è come la scrivi tu, è come la disegnano loro. Working Methods è un bel dietro le quinte del fare fumetti.

Se la stessa sceneggiatura viene assegnata a disegnatori diversi, il risultato cambia. Anche parecchio.


Sento dalle retrovie un sonoro “Graziarcazzo!”. Concordo, però non si nasce tutti imparati. Inoltre non è nemmeno scontato che tutti i  lettori di fumetto sappiano di preciso quali sono e come sono definiti i ruoli di sceneggiatore e disegnatore. 

Se la storia, di norma, la decide lo sceneggiatore, così come i dialoghi, quando si tratta di dover decidere la “regia” della storia, spezzare il tempo nelle singole vignette, decidere come montarle nella singola pagina, quanto è farina del sacco dello sceneggiatore, e quanto del disegnatore?

La risposta più banale e sincera è: dipende. Dal team creativo, dalla serie, dalla casa editrice, da diktat editoriali e da un sacco di altri fattori. Proprio questa varietà di variabilità rende ogni storia un caso a se e la sua analisi potenzialmente interessante. Analisi che a posteriori può far credere che determinate scelte siano frutto, per dire, dello sceneggiatore, prendendo magari una cantonata che allo stesso tempo fuorvia l’analisi e non paga il giusto tributo al disegnatore.


Questo pippotto introduttivo per spiegarvi come mai abbia comprato e divorato Working Methods, un volume che raccoglie tre sceneggiature brevissime ( 3 pagine l’una) disegnate da un totale di 8 disegnatori diversi. Una sorta di making-of/intervista/commento ideato da John Lowe (autore anche di una delle tre sceneggiature), che ha raccolto le impressioni dei vari artisti andando a chiedere loro in che modo hanno affrontato i testi, dai primi bozzetti alla tavola ultimata, passando per layout, chine, documentazione e tutto il resto.

Se le domande sulla tecnica di disegno pura, l’uso dei materiali e delle tecnologie può incuriosire di più i disegnatori, per quanto mi riguarda l’affare si fa interessante quando i vari artisti spiegano come mai hanno deciso di prendere la sceneggiatura come una traccia su cui lavorare, e non come un libretto di istruzioni da seguire a menadito. 

Potrei tirarla per le lunghe ma credo sia più utile, e più chiaro, mettere direttamente una sceneggiatura e le corrispondenti tavole disegnate da 3 autori. Le trovate in fondo al post.


La sceneggiatura è di Mark Kneece, mentre al tavolo di disegno ci sono Mark Schultz, Kelsey Shennon e Mark Brunner. A colpo d’occhio si nota come la differenza macroscopica tra i tre sia la scelta della gabbia. Schultz ha optato per una gabbia rigida, metodica, a sei vignette tutte più o meno uguali, mentre gli altri due hanno scelto quella più libera in cui le dimensioni e la posizione variano secondo scelte ben precise per determinare il ritmo della storia.

Chi ha fatto la scelta migliore? Ma c’è una scelta migliore, a priori?

Se la gabbia è uno strumento macroscopico nell’arsenale dei fumettisti, tutto quanto viene messo al suo interno (e quanto viene scelto di lasciare fuori all’immaginazione del lettore) diventa per quanto piccolo un mezzo per raccontare al meglio la storia.

Paragonando le tre storie si possono notare certe interessanti discrepanze non tanto tra di loro (come è ovvio aspettarsi), ma tra il disegno e la sceneggiatura. C’è chi ha cercato di essere molto fedele al testo, chi ha preferito eliminare vignette ideate dallo sceneggiatore, chi invece spezzarne alcune. Le inquadrature differiscono spesso da quanto richiesto: i disegnatori ci hanno visto giusto quando hanno preferito allargare il campo visivo del lettore, o era meglio seguire l’intuizione dello sceneggiatore?


E tra un disegnatore e l’altro notate chi abbia deciso di sfruttare maggiormente le luci per guidare l’occhio del lettore, e chi ha preferito far svolgere questo compito alla recitazione dei personaggi e al loro posizionamento all’interno delle singole vignette? E i passaggi tra una vignetta e l’altra come sono stati resi? Solo da quanto succede al loro interno, o anche da trucchi grafici che sottolineano i rapporti di causa e effetto, oltre al passare del tempo?

Un sacco di domande (ma solo alcune) che chi fa fumetti si deve porre e che vi mollo con lo scopo di incuriosirvi a ragionare su questi esempi, e magari farvi venire voglia di recuperare il volume per scoprire le ragioni dietro le scelte dei vari artisti.

Perché si tratta di un tipo di lavoro di analisi che non si trova poi così spesso in giro. Gli autori si dilungano, per fortuna, nello spiegare i ragionamenti che li hanno portati a fare certe scelte, tutti spinti in sostanza da pochi principi:

essere chiari
essere leggibili
rendere la storia interessante

e tutti sottolineano come il “bel disegno” e il “design figo” debbano lasciare lo spazio al racconto e alla chiarezza. Alcuni, inoltre, sono così onesti da notare i propri errori e scelte infelici: le interviste sono state redatte mesi dopo il completamento delle storie, dando loro modo di rileggerle con occhio fresco, e più distaccato.

Se i fumetti vi piacciono, e ancora di più se li volete fare, vi consiglio di recuperare il volume, si tratta di poco più di 170 pagine belle zeppe di osservazioni teoriche con la loro declinazione molto molto pratica. In formato cartaceo si trova a fatica e a non poco, però io l’ho comprato in versione digitale a un prezzo più che onesto. Lo trovate qua sul sito dell’editore, la TwoMorrows Publishing.





mercoledì 16 dicembre 2015

Il futuro dello Storytelling e studiare gratis senza muoversi da casa

Un paio di anni fa ho seguito un bellissimo corso dedicato allo Storytelling e alle sue varie declinazioni. A Potsdam, in Germania.

Senza però muovermi da casa.

Christina Maria Schollerer, host del corso nonché scrittrice e produttrice
Si è trattato di un MOOC, un Massive Open Online Course, cioè un corso online aperto a tutti, che ha visto la partecipazione più di 90mila studenti. Che non hanno pagato un centesimo e si sono goduti un bel po’ di contenuti multimediali.

E se ve ne parlo ora è perché ho scoperto per caso, parlandone con un paio di amici sulla necessità di aggiornarsi nel proprio lavoro di narratori, che parte del materiale si trova ancora online, sulla pagina youtube ufficiale del corso, che trovate qua

Come potete vedere scorrendo i titoli dei video, il corso parla dello storytelling in senso ampio, andando ad analizzare quelle che sono le basi del racconto e della narrazione, ma cercando di declinarle di volta in volta in situazioni specifiche e un po' fuori dall'ordinario.

Una domanda meno oziosa di quanto possa sembrare
Che differenze ci sono tra una serie pensata e scritta per il web e una per la tv? E una serie a cadenza settimanale è diversa da una a cadenza giornaliera?

Nei videogiochi lo storytelling come funziona?
La realtà aumentata che possibilità crea per uno che vuole raccontare una storia?


Sono sono solo alcuni degli svariati quesiti interessanti a cui il corso cerca non tanto di dare risposte precise per ogni singolo caso, ma preferisce offrire allo studente parecchi strumenti per poter, volendo, approfondire il discorso con ricerche personali. Una serie di concetti che possono essere usati come bussola per muoversi nei vari ambiti. In questo le interviste a un gruppo eterogeneo di storyteller sono un’ottima aggiunta, con l'analisi di esempi precisi che vengono smontati per mostrare i vari modi in cui il racconto può mutare a seconda delle necessità creative o produttive.

E, come ogni corso che si rispetti, viene suggerita una bibliografia per approfondire i temi affrontati, e venivano richiesti anche dei compiti a casa. Di nuovo, compiti diversi di settimana in settimana a seconda dell’uso che si vuole fare dello storytelling. Interessanti e fuori dal solito, come creare un personaggio da zero con tanto di profili social da far interagire, volendo, con altri personaggi inventati dagli studenti.

Insomma una roba che ho trovato parecchio curiosa e stimolante. Come dicevo sopra, molti dei video sono ancora disponibili online e continuano a essere visibili da chiunque, ed è probabile che vi troviate qualcosa di vostro interesse. 

Gratis, ripeto. Contenuti di alto livello, zeppi di informazioni e riflessioni interessanti, in una forma curata e comoda. Spero di trovarne altri e, anzi, se ne conoscete di simili fatemi un fischio.

mercoledì 25 novembre 2015

Wonder Woman, Fafhrd e Gray Mouser e Samuel R. Delany s'incontrano per caso

Uno degli aspetti che apprezzo del mio lavoro è la possibilità di imparare qualcosa di nuovo, anche su argomenti che magari conosco già abbastanza. Nel momento in cui devo approfondire questa o quella cosa per poterne scrivere, finisce che mi imbatto in un aspetto che magari non avevo considerato molto, o qualche aneddoto che trovo curioso. Cosa che mi è successa ad esempio scrivendo un pezzo per la Guida alla letteratura fantastica dedicato a Wonder Woman: mi sono imbattuto nella copertina del numero 202 della testata a lei dedicata, che vedete qua sotto, e, a seconda di quanto seguiate la letteratura fantasy, potreste trovarla più o meno curiosa anche voi.

Wonder Woman 202
Magari non la riconoscete ma la tipa in bianco è proprio lei, Wonder Woman, la Principessa delle Amazzoni, Diana. Siamo nel 1972 e la DC Comics, sentendo l’aria che cambia nella cultura americana, decide di rivedere la sua eroina di punta: togliamole i poteri, togliamole il costume iconico, uccidiamole l’amante e caliamola nella realtà quotidiana. Non più semi-divinità a combattere minacce sovrumane coi suoi colleghi Superman e Batman, ma la proprietaria di una boutique alla moda che nel tempo libero combatte un coacervo di cattivi, trafficanti e spie internazionali. Seguita dal mentore I Ching che l’ha istruita nelle arti marziali, Diana Prince negli anni ’70 riflette il tipo di eroina dei suoi tempi, un po’ Emma Peele nello stile, meno divina e più terrena. Non troppo, comunque se nella copertina la vediamo dalla parte sbagliata di un barbaro armato di spadone, mentre cerca di proteggere col suo corpo Catwoman. Ma chi è quel barbaro? E il tipetto sullo sfondo?

Sono rispettivamente Fafhrd e il Gray Mouser, coppia di avventurieri tra le più note agli appassionati di fantasy. Ideati da Fritz Leiber negli anni ’30, i due sono stati protagonisti di svariate storie dalla varia metratura e questa copertina determina il loro esordio nel mondo a fumetti. Non ne avevo idea; ero rimasto alla serie regolare che la DC dedicò ai due, intitolata Sword of Sorcery, e soprattutto all’adattamento sceneggiato da Howard Chaykin e disegnato da Mike Mignola, il babbo di Hellboy. L’avventura in compagnia di Diana e Catwoman funge proprio da trampolino di lancio per lanciare Sword of Sorcery, che uscirà a partire dal 1973 dalle mani, tra gli altri, di Dennis O’Neil, Chaykin, e Walt Simonson.

"Come mai Conan non le deve fare ste marchette, Fafhrd?"
Se vedere questo quartetto in copertina mi ha colpito, scoprire chi ha scritto questo albo è stata un’altra bella sorpresa: Samuel R. Delany. Autore in attività dai primissimi anni ’60 che spazia dalla sci-fi al fantasy, interessato da sempre a parlare di temi a lui cari nelle ambientazioni che più gli aggradano: linguaggio, percezione della realtà e sessualità, tra gli altri. Conosciuto soprattutto per le sue storie che approfondiscono questi temi senza lasciare nulla di intentato, può sembrare una scelta un po’ curiosa come autore per Wonder Woman. Ma come accennavo sopra era un periodo di innovazione o per lo meno in cui si tentavano strade un po’ meno battute nel fumetto di supereroi. La rivoluzione subita da Wonder Woman non è stata voluta da Delany, arrivato sulla testata a cose fatte succedendo Dennis O’Neil, ma gli dava la possibilità di lavorare su un personaggio più nelle sue corde: una donna calata nella propria realtà, costretta a confrontarsi con una società in cambiamento che vedeva, nella realtà, il ruolo della donna evolvere, mutare e cercare il proprio posto.

E Delany si offre di fare proprio questo, prendere Diana e metterla contro temi caldi dell’epoca, ma attuali in ogni tempo: sfruttamento sul lavoro, discriminazione accademica e aborto. Tutte idee che non hanno visto la luce dato che la DC Comics decise di non portare a compimento le storie di Delany a causa delle critiche che molti lettori portarono nei mesi precedenti al rinnovamento del personaggio: la nuova versione di Wonder Woman non piaceva ai vecchi fan affetti da nostalgia e attaccamento allo status quo. In particolare questa nuova versione meno mitologica di Wonder Woman venne criticata da  Gloria Steinem: togliere i poteri a Diana significava de-potenziarla, farne morire l’amante significa de-sessualizzarla, farle dismettere il costume significava farle abbandonare un simbolo che ne cancellava l'aspetto di icona femminile costruitosi nel tempo.

Con buona pace di Delany, e soprattutto mia che avrei letto volentieri quel tipo di storie, la DC decise di dare retta alle critiche dei fan, sfruttando con ogni probabilità le critiche della Steneim per legittimare il successivo ritorno alle origini. Così dopo il numero 203 che introduce la trama voluta da Delany, a partire dal 204 si torna alla classica Wonder Woman con tanto di lasso della verità.

Wonder Woman 203, scritto da Delany
Wonder Woman 204, non scritto da Delany


Ora, la storia di Wonder Woman è complessa, come lo sono le storie dei personaggi seriali, in particolare quelli che stanno in giro da più di 70 anni come lei, e questo è solo un piccolo aneddoto. I personaggi seriali mutano in continuazione, in un perenne tira e molla tra una realtà delle origini che si deve adattare alla realtà del momento attuale, una frizione che può portare cose interessanti come banalità assortite. Questo è il concetto sotteso al mio pezzo che trovate sulla Guida alla letteratura fantastica e che spero sia passato, insieme a notizie, di nuovo curiose per il sottoscritto, a proposito del suo creatore William Moulton Marston, la cui vita varrebbe di sicuro un film. La Guida la trovate in libreria, edita da Odoya, per la curia di Claudio Asciuti.


giovedì 12 novembre 2015

Conan il Barbaro, bodybuilding, doping e letteratura fantastica

“Come funziona il tuo lavoro?”

È una domanda che ogni tanto mi sento rivolgere e a cui rispondo spesso con: dipende. Per farvi un esempio, quest’anno mi sono trovato a collaborare alla Guida alla narrativa Fantastica per i tipi di Odoya, curata da Claudio Asciuti, che trovate in libreria in questi giorni. La richiesta di Claudio è stata di parlare di alcuni aspetti tipici della narrativa fantastica, nell’ambito del fumetto. Amazzoni, barbari, armi magiche, luoghi fantastici. Scimmioni. Li ho affrontati tutti e un altro paio, ma vediamone uno in particolare.

Barbari? Conan, ovvio.

No, l'altro Conan, Conan.
Meno ovvio è stato, per me, trovare una chiave di lettura che mi permettesse di parlare di uno dei personaggi più influenti, conosciuti e dibattuti della narrativa popolare. Non mi è stato d’aiuto nemmeno il fatto che pur avendo letto tutti i racconti scritti da R.E. Howard, letto parecchi fumetti e visto i film a lui dedicati, Conan non sia tra i miei personaggi preferiti. Ma scrivere per lavoro significa scrivere al di là di preferenze e simpatie. Il committente dice “Mi scrivi un pezzo su questo argomento?” e tu rispondi “Quante battute?”.

La chiave di lettura che ho scelto, e che mi ha permesso di seguire un filo conduttore nel raccontare 60 anni di Conan a fumetti, mi è venuta in mente grazie a Chris Bell.

Arnold a sinistra, Chris Bell con cappellino a destra.
Chi è Chris Bell e come si incastra con Conan e i fumetti? La risposta è semplice: Chris è un documentarista e uno dei suoi eroi è Arnold Schwarzenegger. E Arnold Scwharzenegger è diventato da 40 anni sinonimo di Conan il Barbaro, con buona pace dei filologi howardiani. S’intravede dove voglio andare a parare? Andiamo con ordine.

Nelle descrizioni di Howard, Conan viene dipinto come un uomo dalla prestanza fisica superiore ma comunque agile, svelto, sinuoso come una pantera. Muscoloso senza dubbio, ma non un gigante dalle vene pulsanti e muscoli in sovrabbondanza. E questa descrizione viene mantenuta più o meno fedele anche nei fumetti, in particolare quelli della prima ora usciti per la Marvel a partire dagli anni ’70. Sarà solo col passare dei decenni che il Conan a fumetti vedrà i propri muscoli gonfiarsi sempre più, un riflesso dell’evolversi della figura maschile nella cultura popolare che investe bene o male tutti i personaggi di fantasia. 
No, Arnold, l'altro Conan.
E qui torniamo a Chris Bell e al suo ottimo documentario intitolato Bigger, Stronger, Faster dedicato al doping. Cresciuto nel culto degli atleti del wrestling e degli eroi di azione come Stallone e Schwarzenegger, Chris con i suoi fratelli si da al bodybuilding e al powerlifting per diventare più forte e più grosso. Sarà solo passati i venti anni, grazie a scandali sportivi e di costume, che scoprirà che i suoi beniamini hanno costruito i propri fisici anche grazie a sostanze dopanti. Da qui la decisione di fare un documentario sul doping e interrogarsi sul perché le persone decidano di doparsi e su come siano rappresentati gli atleti e gli eroi di azione. Se Sean Connery, che è stato culturista, era abbastanza prestante da poter essere James Bond, come mai ora il suo fisico sembrerebbe mediocre ai più? Sono domande e riflessioni che Chris si pone e lo portano a guardare al cinema e alla tv come parti integranti nella creazione delle aspettative del pubblico per quanto riguarda l’aspetto dell’eroe. E torniamo a Swarzennegger e al suo Conan.

Arnold è stato un personaggio fondamentale nel plasmare l’iconografia dell’eroe d’azione e ci è riuscito partendo da lontano, diventando, prima che un divo del cinema, il volto del bodybuilding. La sua personalità over the top è stata parte integrante del successo della disciplina del culturismo, che grazie a lui passa da hobby per una nicchia di persone appassionate a fenomeno mainstream e industria multimilionaria. Arnold diventa il prototipo del bodybuilder, il traguardo che tutti quelli che sollevano pesi vorrebbero raggiungere e superare. Il documentario Pumping Iron, di cui è protagonista con Lou Ferrigno (altro fisico da fumetti, l’uomo che interpretò l’incredibile Hulk in televisione), lo rendono un volto noto al grande pubblico. Quando arriva a interpretare Conan sembra quasi che i (pochi) panni del barbaro gli stiano stretti non solo letteralmente ma anche come idea: se oggi pensando a Conan ci viene in mente un ammasso di muscoli lo dobbiamo ad Arnold, al suo carisma, al suo essere bigger than life e probabilmente anche bigger than fantasy. 

Disegnato da Sal Busema & Alfredo Alcala 1970
Disegnato da Claudio Castellini 1997




















Se il cinema ha visto questa esplosione di muscoli, il fumetto non è stato a guardare e il mio pezzo sfrutta questa progressione muscolare come filo rosso per raccontare in che modo la vita editoriale a fumetti di Conan si sia evoluta non solo nei contenuti ma anche graficamente. Nel mio pezzo mi concentro nel raccontare in che modo Conan è arrivato in Marvel (ed è stato un arrivo un po’ rocambolesco per cui dovete ringraziare Roy Thomas e la sua spregiudicatezza) passando poi per DC Comics e Dark Horse, ma è anche un modo leggero per sottolineare come l’aspetto visivo e l’idea stessa del personaggio siano evoluti negli anni divenendo, nella cultura popolare, qualcosa di simile ma molto diverso rispetto all’idea originaria creata da Howard. Stessa riflessione che si trova anche nel pezzo in cui vi parlo di Wonder Woman e che si lega alla mia idea personale dei personaggi seriali: non esiste un’unica versione vera di un personaggio seriale, ma tante quanti sono gli autori che l’hanno raccontato. Compresi, nel caso di Conan, quegli autori che ne fecero un fumetto non autorizzato per l’editoria messicana a partire dal 1952. Se siete curiosi di approfondire, vi tocca leggere la Guida alla letteratura fantastica. 


Quindi alla domanda “Come funziona il tuo lavoro?” io spesso non so rispondere in maniera concisa perché quasi ogni cosa io scriva nasce nella maniera più disparata. Chi lo avrebbe mai detto che un documentario sugli steroidi mi sarebbe tornato utile, a distanza di anni, per trovare la chiave di lettura comoda per scrivere di Conan?


Vi lascio con un estratto da Bigger Stronger Faster in cui viene mostrata l’evoluzione del fisico dei GI Joe. E nel caso il doping sia un argomento che vi interessa vi invito a guardare il documentario, è davvero interessante.

venerdì 18 settembre 2015

Ricomincia la scuola, non lo vuoi un diario davvero fico?

Per la serie lavori che non avrei mai pensato di fare ma che è stato divertente fare, io e Federico abbiamo creato le illustrazioni per un diario scolastico. La cura grafica ed editoriale è dello studio genovese Visgrafica. Sul blog di Fede trovate un paio di immagini di lavorazione, qua sotto invece una foto del diario in tutta la sua bellezza.

Bello fuori, ancora meglio dentro.

Le illustrazioni toccano alcuni aspetti della sicurezza in rete e della consapevolezza necessaria nell'usare internet limitandone rischi e trappole. Il diario è ovviamente indirizzato ai ragazzi, ma come sottolineiamo nel testo è un'occasione buona come un'altra per parlarne pure con genitori e adulti in genere, che non è detto siano ferrati. 

Devo ammettere che dopo aver passato anni a scrivere e fare disegnini sui miei diari quando andavo a scuola, essere stato pagato per fare la stessa cosa ha un certo gusto di chiusura del cerchio. Poi averlo fatto con un amico talentuoso e poliedrico come Federico aggiunge quella nota di "Coppia di studenti che cazzeggia nell'ultima fila di banchi." che rende tutto ancora più divertente.

UPDATE: dato che me lo avete chiesto in diversi, in caso vi interessasse acquistare il diario

A) grazie!
B) non lo trovate in cartoleria perché è tra i diari a basso costo e personalizzati fatti apposta per il circuito delle scuole. Nel caso però moriste dalla voglia di prenderlo, se siete di Genova, lo potete acquistare presso VisGrafica, di cui vi ricordo il sito.
C) Grazie di nuovo!

martedì 11 agosto 2015

Le mie allucinazioni notturne escono dalle fottute pareti.

Le mie allucinazioni notturne escono dalle fottute pareti.

Spesso di notte vedo cose che non esistono e sento suoni senza origine.

L’immunosoppressore che assumo dal 2008 si chiama Tacrolimus, come il nome di un mago sfigato in un romanzo fantasy di bassa categoria. Il nome commerciale è Advagraf, come il nome di un guerriero sfigato compagno di sfighe di Tacrolimus. Insomma, se sapete disegnare e volete alleggerire il post, vi ho dato uno spunto.

Il Tacrolimus ha una lunga riga di effetti collaterali (qua ci sono tutti, mi pare). A volte mi lamento di quelli più fisici, tipo crampi, stanchezza o fiacchezza. Ma ce ne sono alcuni di altro tipo, più neurologici o psicologici, che a seconda del soggetto possono o meno farsi sentire, con intensità più o meno serie. Una breve e incompleta lista di questi:

Difficoltà a dormire
Sintomi di ansietà
Confusione e disorientamento
Sbalzi d’umore
Incubi
Allucinazioni
Disturbi mentali
Compromessa capacità di scrivere
Depressione

Faccio finta di non leggere “compromessa capacità di scrivere” (per quanto possa essere un’ottima scusa per quando quello che scrivo mi fa cacare) e mi soffermo sul dinamico duo “Incubi&Allucinazioni”, che se pare un titolo di richiamo per l’ennesima raccolta di racconti perturbanti, è un discreto accelerante per far cagliare coglioni e umore del sottoscritto.

Per quel che mi riguarda le allucinazioni avvengono durante la notte/sonno. Per ora. In letteratura medica questo tipo di allucinazione viene studiato da parecchio ed è, nei casi meno complessi e/o gravi, vista come quello che una volta veniva definito “sogno a occhi aperti” o anche "tiggiuro è entrato un angelo in camera da letto". Insomma, non si tratterebbe di vere e proprie allucinazioni, quanto di sogni che si fanno in quel momento in cui veglia e sonno si danno le ultime linguate fugaci e palpatine fruganti prima di darsi il cambio.

Se questi incubi avvengono mentre ci si addormenta vengono chiamate allucinazioni psicopompe. Se avvengono durante il risveglio sono ipnopompe.

A me colgono le ipnopompe, spesso, volentieri e profonde. Non tutte le notti, ma è raro che passi una settimana senza che qualche ipnopompa mi colga alla sprovvista.

Farei volentieri a cambio con altro tipo di pompe. La mia mail è qua a fianco, in caso ci siano volontarie.

Questo tipo di visioni me lo tiro dietro da qualche anno. Il peggio è stato durante il post-trapianto vero e proprio (ne avevo parlato qua) ma al momento pensavo fosse dovuto all’operazione in sé, oltre al mix di non ricordo quanti farmaci e anestetici di cui ero imbottito. Invece pare che tra i trapiantati sia un effetto collaterale diffuso e duraturo nel tempo.

Per cui tocca conviverci.

Una cosa che mi ha stupito di queste visioni è quanto siano intense e persistenti.

Ora, lo so, me ne rendo conto, magari siete convinti che quella che io chiamo allucinazione o visione siano in realtà brutti sogni e che io sia solo convinto di essere sveglio quando le vedo. Lo pensavo pure io.

Poi però, dato che mi sono rotto i coglioni di visioni così improvvise e reali da farmi alzare dal letto di colpo col cuore a mille e andargli incontro per scacciarle, ho rimuginato su una strategia per capire se davvero sogno o son desto.

Per cui ora se durante la notte vedo un volto, o svariati volti, senza lineamenti precisi ma dall’espressione infelice che si muove sul muro, oppure una forma che si alza in spire dalla libreria, cerco di calmare il respiro, la guardo e mi siedo sul letto. A volte mi alzo anche, continuando a fissarla. Se, dopo essermi messo in posizione, il volto è ancora là che mi fissa, allora mi dico che è normale. C’è davvero ma non esiste sul serio. È solo un aspetto della mia nuova realtà di trapiantato. Poi fisso qualcosa di vero, di solido e di materiale. Tipo le mie mani, che però non sembrano appartenermi perché in questa atmosfera è un po’ tutto ad apparire in un altro spazio. Poi torno sulla visione ed è ancora lì, o magari si è solo mossa di poco.

E solo dopo una decina di secondi in cui sono sveglio, cosciente e in piedi, e mi guardo intorno cercando qualcosa che mi sembri davvero vero da poter usare come ancora del reale, allora è in quei momenti che la visione sfuma. Il muro torna bianco, la libreria torna a essere la classica libreria con una pila di libri in lettura e posso tornare a dormire. Chiedendomi cosa vedrò una delle prossime notti.

Come dicevo, non mi capita tutte le notti, per fortuna. In qualche modo riesco a razionalizzare la cosa in quanto conseguenza dei farmaci e conviverci, per quanto abbia ricadute facilmente intuibili sul mio ciclo sonno-veglia e sul mio sentirmi riposato e rilassato. Però.

Premesso che

A) sono vivo più per culo che per altro e che
B) queste visioni sono ben poca cosa rispetto a chi soffre di allucinazioni davvero gravi e invalidanti,

cerco di non lamentarmi troppo.

Però da qualche anno per me il concetto di realtà unica e inamovibile è stato un po’ scalfito dagli accadimenti. C’è stato un prima e un dopo. Ci sono crepe profonde nel modo in cui vedo le cose, e non parlo solo di quelle immaginarie. Cerco di fare buon viso a un gioco che se non è stato cattivo non è stato nemmeno dei migliori.

Solo non vi stupite se il mio umore non è sempre straripante ilarità.




martedì 12 maggio 2015

Vignette in discussione, o di quanto mi sia piaciuto Panel Discussions di Durwin Talon

Questo post è interessante solo se vi piacciono moltissimo i fumetti, se li volete fare o se volete capirli meglio. No, non sono consigli elaborati dal sottoscritto e nemmeno esempi del mio lavoro. Però ho letto un volume d’analisi che ho trovato ben fatto e pieno di spunti, si intitola Panel Discussions, edito dalla TwoMorrows Publishing.


Il curatore, Durwin Talon, ha avuto la buona idea di rendere la cosa molto pragmatica e circoscritta, ponendo domande tecniche su problematiche precise che vengono affrontate dai fumettisti nel loro creare vignette e tavole.

È una raccolta di conversazioni con una riga di autori molto molto bravi e dallo stile diverso tra loro.
Tanto per darvi un’idea della qualità degli autori, ci trovate dentro tra gli altri Mike Mignola, Will Eisner, David Mazzucchelli, Walter Simonson, Mike Wieringo. Più o meno tutti autori che bazzicano il mondo dei supereroi, ma comunque con esperienze molto varie, dalla pittura a olio, all'illustrazione pubblicitaria, passando per le autoproduzioni, l'underground e lo storyboarding. Vi lascio in fondo al post la lista completa.


Ogni capitoletto è dedicato a un singolo autore: Talon lo introduce brevemente, lo fa parlare di teoria del racconto a fumetti e poi si arriva alla ciccia, il vero bonus di questa pubblicazione: spiegare come mai l’autore ha ideato e disegnato una o più tavole in un certo modo. Con la tavola riprodotta e, in molti casi, con le fasi antecedenti: schizzi preparatori, layout, matite, chine e via così.
Per cui potete guardare le tavole scelte da Mignola come esempio e capire come mai una vignetta molto piccola assume un valore molto grande all’interno della tavola. Non è solo quanto disegnato, ma il modo in cui è stato disegnato, quali colori sono stati usati, come il tutto è bilanciato con le altre vignette che formano la tavola. 

Scoprite come mai autori come Eisner considerano tutto ciò che fa parte della tavola un segno essenziale al racconto: i baloon, le onomatopee, i font stessi dei dialoghi. Come ha deciso di manipolarli tutti, in maniera anche piccola, per far passare il ritmo, l’atmosfera e l’emozione che si è prefisso ideando le sue storie. E come mai decise di aprire le sue storie di Spirit con una splash-page.

Van Fleet approfondisce in che modo l’uso del colore non è semplice riempitivo degli spazi ma freccia all’arco di ogni fumettista che voglia sottolineare determinate emozioni o persino concetti. Talon infatti non si fissa su un solo aspetto del fare fumetti ma bene o male copre tutto quanto concerne la parte visuale del linguaggio. Quindi ogni tanto vi beccate anche mini-lezioni sulla teoria del colore, sull'equilibrio tra bianchi e neri o su come sia efficace l'inchiostrazione di Dick Giordano.

E molto spazio lungo il volume viene dedicato al concetto di tavola e a quello che in italiano viene spesso definito “gabbia” o “griglia” delle vignette: c’è chi trova la rigidità della gabbia comoda, chi preferisce usarla solo come punto di partenza e altri che ne farebbero volentieri a meno.

Ora, se cercate un volume che parli di sceneggiatura, trama, narrativa e cose così, no, niente, volume sbagliato. Anche se per me è sempre molto interessante vedere la sceneggiatura scritta e la tavola finita, come capita nei capitoli dedicati a Randy Stradley e Wieringo, il punto di forza di Panel Discussions è proprio quello di focalizzarsi sul design dei fumetti. Il che credo possa essere solo un bene: io vivo nella convinzione che chi racconta per immagini, anche se è solo uno sceneggiatore, può solo giovarsi dallo studiare molto gli aspetti e le tecniche più puramente visive del fumetto (o del cinema). Alla peggio uno si trova in mano maggiori strumenti d'analisi per capire quello che legge e vede. Nella migliore delle ipotesi può riuscire a scrivere sceneggiature migliori e ridurre al minimo richieste impossibili per i disegnatori.

Volendo trovargli un difetto: se le tavole fosse di maggiori dimensioni e la stampa un filo migliore, sarebbe meglio. Ma già così è tanta roba e molto utile.

Comunque su google books trovate una sostanziosa anteprima, praticamente tutto il capitolo su Mignola, qua, e su Issu altre pagine da sfogliare, qua.

Vi ho parlato di Panel Discussions, edito da TwoMorrows Publishing. 


Gli autori raccolti sono:

Mike Carlin
Randy Stradley
Mike Wieringo
Mark Schultz
Dick Giordano
Mike Mignola
Brian Stelfreeze
Scott Hampton
David Mazzucchelli
Chris Moeller
Walter Simonson
George Pratt
John Van Flett
Mark Chiarello
Will Eisner

venerdì 8 maggio 2015

Triple Threat Watch - After Watch, o di come Max sia un tipo normale in un posto speciale

Triple Threat Watch: in cui vi parlo di tre film in qualche modo collegati tra loro. Qua trovate l'intro al TTW, e qua sotto la terza entrata, dedicata a Mad Max Beyond the Thunderdome, del 1986. Qui la prima e qui la seconda e qui la terza.

Tre film entrano, uno solo ne esce!

E bene o male credo siamo tutti d’accordo nel dire che a uscirne vincitore è il secondo, Road Warrior.

Però l’idea del Triple Threat Watch non è tanto quella di decretare un vincitore, ma di rimuginare su film che per un motivo o per l’altro hanno qualcosa di simile. Qui abbiamo lo stesso protagonista che si muove nello stesso mondo. Con l’interessante aggiunta che il mondo in cui si muove cambia intorno a lui, e non cambia mica poco.


 Guardare i tre film uno via l’altro l’ho trovato più interessante di quanto pensassi. Notare lo scarto in avanti che George Mille ha cercato di dare a ogni pellicola penso possa mostrare un approccio al racconto seriale che mi pare non sia molto battuto, in special modo negli ultimi anni.

Se ci si pensa le differenze che abbiamo tra il primo e il secondo film sono così forti che potrebbero quasi essere storie del tutto separate. Anzi, in un certo senso è così. A occhio direi che il secondo film sia una storia che sta in piedi da sola, contenuto in se stesso. Forte della sua trama ridotta all’osso che rientra nella lunga e sfaccettata tradizione del:

uno straniero arriva in una città piena di gente onesta funestata da un gruppo di cattivi, e fa il culo ai cattivi

si tratta di una storia in cui tutto viene giocato su atmosfera, ambientazione, interpretazioni e capacità del regista di rendere tutto interessante e affascinante. Anche togliendo l’intro in flashback e il voice-over che ci fanno sapere il passato di Max, non perdiamo un granché. Un po’ perché il film ci mostra molto bene come funzionano le cose in questo mondo, un po’ perché è il comportamento di Max all’interno della pellicola a farci sapere con chi abbiamo a che fare.

 

Certo, sapere che ha perso la famiglia e come aggiungono qualcosa di tragico, ma come dice Pappagallo “Abbiamo tutti perso qualcuno, non pensare di essere speciale.”.

E in effetti Max non è un personaggio particolarmente speciale. Non ha poteri, non ha capacità che lo rendano diverso dagli altri, fatta eccezione per le qualità che ogni eroe deve avere: non molla, è furbo, preparato. Ma, a parte l’orrendo mullet che gli spunta nel terzo, è un uomo normale che si muove in un mondo assurdo.

 

Che è l’altra cosa ad avermi colpito nel rivedere i film. Pur non potendolo considerare un eroe, dato che come ci ricorda lui è li solo per la benzina, Max rimane tra i personaggi più “eroici” del film. Ma non tanto per coraggio o sprezzo del pericolo superiore alla norma, quanto per l’assenza di certe caratteristiche nella non-società che lo circonda.

Nel primo film gira le spalle alla polizia.
Nel secondo aiuta i villici per la benzina prima, e poi perché non ha altra possibilità di sopravvivenza.
Nel terzo, ok, aiuta dei bambini, ma non bisogna essere eroi per trovare discutibile che dei bambini vengano stuprati e mangiati. E forse non in questo ordine.


Altra evoluzione evidente è l’intrusione dell’umorismo a partire dalla seconda pellicola. Se nella prima l’unica cosa che possa strappare una risata è l’aspetto grottesco di alcuni personaggi e di alcune situazioni, che sfocia comunque più da un fastidio che si prova guardando persone fare qualcosa che stride, nel secondo l’ironia è più buffa.

Pensate a quando il pilota dell’autogiro è tenuto sotto minaccia dal cane di Max, o sempre il pilota cerca di sedurre LaBella™ dei villici. Sono moneti brevi, ben calibrati, che non scalfiscono mai la violenza di tutto ciò che accade. Al contrario del terzo film, in cui l’umorismo non è più solo momento eccezionale tra un mare di dolore e nichilismo, ma compagno dell’azione che porta la pellicola più vicina a quel concetto di action moderno a la Commando.


Il che mi porta a notare come nei primi due film non ci siano praticamente i tipici one-liner da eroe d’azione, che scarseggiano pure nel terzo. E questo perché Max è, per lo meno in queste tre pellicole, un giustizie vecchia scuola e non un action-figure che se gli tiri la cordicella spara col bazooka come fosse un revolver.

Insomma, per me è stata una re-visione molto più fica di quanto m’aspettassi che mi ha solo fatto aumentare allo stesso tempo la scimmia e la paura di vedere Fury Road.