mercoledì 6 maggio 2015

Triple Threat Watch: Mad Max - Road Warrior, o delle origini di Ken Shiro, più o meno

Triple Threat Watch: in cui vi parlo di tre film in qualche modo collegati tra loro. Qua trovate l'intro al TTW, e qua sotto la seconda entrata, dedicata a Mad Max del 1981. Qua invece la prima parte.

Guardando Mad Max: Road Warrior mi ha colpito da come il regista, George Miller, sia riuscito a fare un film molto diverso dalla prima pellicola pur mantenendone intatto lo spirito e anzi irrobustendone il mito senza andare ad appesantirlo. Azzardo un paragone: per certi versi c’è la differenza che troviamo tra l’Alien di Ridley Scott e l’Aliens di James Cameron. Si tratta sempre di xenomorfi, ma il secondo film è più grande, più chiassoso e più cool.


Gran parte del merito lo si deve a scenografi, costumisti e maghi della modificazione dei mezzi. Così come nel primo film, non sono certo la trama o la sceneggiatura, entrambe risicate ed essenziali, a renderla una storia affascinante. Se a distanza di 30 anni ne parliamo ancora, lo dobbiamo alla capacità di Miller di mettere in scena immagini forti, e non mi riferisco solo alla violenza di certe morti o alla perizia degli inseguimenti.

Di nuovo ce l’ho con l’efficacia con cui i personaggi sono resi caratteristici, curiosi e, incredibilmente, credibili in questo mondo senza più regole civili. Tra tutti giganteggia senza dubbio Lord Humungus, colosso dal fisico da bodybuilder, poco vestito con perizoma in cuoio e borchie, dal volto sempre celato da una maschera da hockey tra i cui fori intravediamo cicatrici. Di lui sappiamo poco o nulla. E’ a capo di una gang di criminali folli e, per quanto ferino e violento, sembra abbia un suo codice d’onore: quando decide di conquistare un’oasi in cui si trova una pompa di petrolio, da la possibilità ai suoi abitanti di scappare senza decimarli. A giudicare dal suo revolver e pochi dettagli come una medaglia e una foto, potrebbe essere un militare che la guerra e l’apocalisse hanno reso folle, o solo disperato nel trovare un ordine a cui votarsi. Ma sono cose che lo spettatore può solo desumere, non ci sono pippotti, flashback o infodump di sorta.


Come il vero rapporto che corre tra Humungus e Wez, il suo secondo in campo, il suo “dog of war” che ha preso in antipatia personale Max. Wez, con la sua cresta punk, la balestra da polso e la corazza da football non perde tempo con ultimatum e proposte, tanto meno quando gli ammazzano il compagno di viaggio, biondino ed efebico, per certi versi una versione rinnovata del Bubba del primo film. E se nel primo Mad Max l’eventuale omosessualità della gang veniva solo suggerita, qua gli accenni sono allo stesso tempo sottolineati ma non esplicitati. Non solo Wez e il biondino sembrano una coppia, ma Humungus ha dato nomi precisi ai suoi uomini, tra la divisione “Gayboy berserkers” e quella “Smegma Crazies”. Certo, il tono del film è corroborato da una sottile ironia e umorismo, ma tra immaginario da biker inguainato in cuoio e borchie e il rapporto d’odio amore tra i loro membri, credo che il sottotesto sia voluto e cercato.


L’equilibrio tra sottile umorismo e la ferocia della violenza inscenata viene giostrato molto bene lungo tutta la pellicola. Per quanto esplicita, cruda e abbondante mi pare che la violenza non passi mai dalla parte del “così esagerata da essere divertente e innocua” ma mantenga sempre bene la sua valenza di cosa disturbante, fastidiosa e sbagliata. In questo i momenti divertenti sono ben dosati, in buona parte sulle spalle del comic relief della pellicola, quel pilota dell'autogiro che tenta di derubare Max all’inizio del film, scoprendo subito di avere avuto una cattiva idea. Ennesimo personaggio, per altro, che grazie a un costume azzeccato, un mezzo di locomozione ridicolo e una dentatura apocalittica, rimane ben definito, nonostante di lui non si sappia nemmeno il nome ne, tantomeno, il passato. In questo aiuta la mimica e recitazione del suo interprete, mai davvero comica o buffa ma sempre quel tanto fuori sincrono rispetto al dramma cui assiste da aggiungere un tocco di ridicolo al grottesco che lo circonda.


Le interpretazioni sono un'altra freccia all’arco di Miller, che capisce bene di non avere in mano un dramma esistenzialista ma un film d’azione i cui personaggi non vanno per il sottile nemmeno quando dichiarano le loro azioni. Lord Humungus che, armato di microfono, si presenta agli abitanti dell’oasi con fare enfatico cercando di essere un uomo ragionevole, come un politico a un comizio, oppure Wes che soffia e sbraita come un animale sono i nipoti degenerati del Toecutter del primo film. Per contralto abbiamo Max, sempre dimesso, sottotono, quasi spento, ingrigito e impolverato da anni passati sulla strada in cerca di benzina e poco altro.
Se nel primo film Max è solo un vigilante, nel secondo non è neppure più questo. È un uomo solo, senza niente, in cerca di niente. Quando incappa nell’oasi è interessato solo alla benzina, ed è quello che chiede come pagamento per aiutarne gli abitanti. Se combatte prima con Wez e poi con tutta la gang di Humungus, è come mercenario. E quando verso la fine del film si unisce ai villici, lo fa solo perché non ha altra possibilità di sopravvivere. Nonostante i momenti leggeri del film, il Max di Road Warrior è forse ancora più cinico, disilluso e senza speranza del primo. Si ha l'impressione che a muoverlo non siano ne il senso di giustizia e neppure più quello di vendetta ma solo la sopravvivenza.


Ma possiamo parlare di Road Warrior senza parlare di auto, inseguimenti e azione? Come nel primo, si tratta di elementi che ancora reggono benissimo il passare del tempo e che, di nuovo, hanno la loro ragione d’essere come momenti per portare avanti la storia e farci capire meglio chi siano davvero i personaggi, non solo sboronate per gli stuntmen, che comunque si meritano ogni plauso, o un vezzo di Miller. In un ambiente in cui o guidi o muori e in cui la benzina equivale alla vita, avere cilindri e saperli usare equivale ad avere la spada e saperla calare nel modo giusto. E come nel primo abbiamo di nuovo quelle cacchio di accelerazioni dei frame che rovinano un po’ il tutto. Una scelta che davvero fatico a capire ma è solo qualche secondo in una novantina di minuti tiratissimi, in cui il ritmo funziona a mio avviso meglio rispetto al film del ’79, lasciando poco spazio per respirare, e quando si respira lo si fa sempre chiedendosi cosa sta per capitare.

I mezzi, così come i costumi, sono poi il fiore all’occhiello della pellicola: auto e moto modificate in ogni modo per affrontare i rigori del deserto e degli scontri. Mezzi che per quanto risultino sopra le righe danno comunque l’idea di essere letali e coerenti con la follia del tempo in cui vivono i loro piloti, sempre a un passo dal rimanere senza benzina e quindi senza vita. Una coerenza estetica che ha lasciato, come dicevo, il segno e ha colpito creativi di tutto il globo e di vari ambiti. Tralasciando la miriade di film che si sono ispirati a Mad Max, e senza approfondire quanto i creatori di Ken Shiro abbiano preso dai cattivi di Max per il loro esperto di arti marziali, mi piace ricordare l’influenza che Miller ha avuto nel mondo del wrestling.


Magari li conoscete come Legion of Doom, magari li conoscete come Road Warriors, oppure con i loro nomi singoli di Hawk e Animal. Fatto sta che non hanno mai nascosto dove hanno trovato ispirazione per la loro gimmick, a partire dal nome scelto, e sono diventati uno dei tag team più blasonati di sempre nel wrestling. Vi lascio, come bonus musicale, con il loro theme (se ve lo state chiedendo, si, i wrestler hanno la sigla, quando entrano sul ring), e vi aspetto domani col terzo post per il nostro Triple Threat Watch. Riuscirà Max a superare il suo nemico più feroce, il PG-13?











Nessun commento: